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Droni e cinema: la ripresa cinematografica tra tradizione e innovazione

Droni e cinema: la ripresa cinematografica tra tradizione e innovazione

Cinema e Droni.

Spettacolo e spettatore: due unità imprescindibili al cinema, i poli entro i quali oscilla la rappresentazione, per definizione divisi dall’identità stessa del mezzo, ma c’è da chiedersi: se il cinema sta percorrendo una strada, qual è questa strada e dove conduce?

Tante le idee che si rincorrono: dalla maggiore “immersività” assicurata dall’implementazione delle tecnologie 3d, il cui grande limite (e pregio) è l’essersi dimostrato idoneo compagno della ripresa tradizionale solo in soggetti concepiti per tale uso, all’invasione dell’“ultracorpo” digitale, anche in campo strettamente recitativo.

Il drone, nella settima arte, non ci entra da perfetto sconosciuto. L’industria cinematografica ha già avvertito l’esigenza della libertà totale di movimento nel campo visivo abbracciato dalla cinepresa e l’ha fatto già dai tempi della sky cam, messa a punto da Garrett Brown per le olimpiadi losangeline del 1984.

Ma che apporto può dare uno strumento come il drone?

Concentriamoci prima di tutto sulla ripresa aerea. Il fine? Sviluppo di un senso di verticalità e allargamento dell’orizzonte percepito.

Pensiamo all’action puro, al genere bellico, all’epic fantasy o al disaster movie con ambientazione urbana: sono questi i campi di più immediato utilizzo. L’attuale avanzamento della tecnologia robotica nel campo dei droni permette di abbattere la parete divisoria tra movimento, inteso non solo in senso transattivo, e obiettivo.

Per l’osservatore diventa così possibile non solo apprezzare la genesi dello spostamento di un corpo nel tragitto che lo conduce dal punto “A” a “B”, ma anticipare la consapevolezza del corpo recitante nell’incontro con il suo oggetto d’interazione.

Un esempio classico, in tal senso, è offerto dall’impianto giallistico hitchcockiano, dalla camera che attraversa gli ambienti (Track Trough Solid) alla “carrellata” in avanti con rapido zoom all’indietro utilizzata in “La donna che visse due volte” per simulare il senso di vertigine percepito da James Stewart.

Passi in avanti, questi, che saranno resi possibili dall’implementazione di nuove tecnologie studiate, in distinti progetti, dai ricercatori del MIT – Massachusetts Institute of Technology e del Georgia Institute of Technology.

Tali innovazioni, presentate all’ICRA 2017 (Conferenza internazionale di robotica e automazione), riguardano il rilevamento automatico degli ostacoli nella percorrenza di una traiettoria, e il coordinamento con altri droni in volo per evitare collisioni.

Tutto ciò avverrebbe grazie ad opportuni algoritmi, che individuerebbero, tramite dei raggi, una sorta di campo vitale per il drone.

Non ci sarà poi bisogno di alcun supporto esterno. Eccezion fatta per un tecnico che si occupi della supervisione, evitando così la necessità di un complesso lavoro di squadra tra cineoperatori e piloti.

In un sistema complesso ma di dimensioni ridotte, grazie ad un’elevata velocità di calcolo della traiettoria, più sicura e a sensibilissimi sensori ottici, i droni progettati sono in grado di muoversi velocemente con eccellenti tempi di reazione, arrestando il loro volo con una rapidità incredibile.

Pensate a come, nel primo caso, potrebbero essere facilitate le riprese action in un setting boschivo o forestale, senza il ricorso al green screen. E, ancora, pensiamo al campo documentaristico, alla riproposizione della stessa ripresa da varie angolazioni per apprezzarne la naturalezza. Qui sarebbe a dir poco vitale l’utilizzo di riprese coordinate che rispondano a traiettorie memorizzate e prestabilite.

Sono presenti ovviamente delle negatività: un’istituzione della regia classica come il piano sequenza sarebbe potenziato da strumenti come questi, o si correrebbe il rischio di snaturarne lo scopo e di trasformarlo in un porting virtuale della contemporaneità tra azione e visione?

Ma in questo quadro fatto di ritmi serrati, di corse contro il tempo e di fughe rocambolesche, in cui l’evoluzione della robotica dei droni può davvero apportare un progresso tangibile, ci si può chiedere se ci sia spazio per un ritorno al passato.

Nel noir e nel crime classico, terreno ancora fertile per i nostalgici, il ricorso all’high o all’extreme angle shot restituirebbe all’uomo, nella sua fragilità, un ruolo cardine.

A beneficiarne sarebbe la completezza di un impianto drammaturgico che esalti il soggetto dapprima con una fotografia aerea, per poi “braccarlo” e abbracciarlo con un movimento circolare teso a ritagliarlo rispetto allo spazio circostante, in una sorta di visuale in terza persona.

Alcune tecnologie messe a punto tra il 2016 in poi permettono infatti al drone di recepire l’eventuale repentino cambio di posizionamento dell’attore rispetto alla telecamera, rendendo anche la “ripresa a mano” non più solo prerogativa di un cinema d’esordio, come nel caso del danese Nicolas Winding Refn ma puro esempio di tecnica cinematografica, privata, magari, del fastidiosissimo effetto shaky hand.

Pensate se un drone avesse ripreso Humphrey Bogart nelle sue entrate in scena, o se un regista come Spielberg avesse avuto a disposizione, nei primi anni ’70, strumenti come questi per il suo Duel. Staremmo parlando, oggi, di un altro cinema.

Articolo in collaborazione con Elio Palumbieri

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