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La semplice istigazione al suicidio è un reato?

La semplice istigazione al suicidio è un reato?

Istigazione al suicidio.

“Manda audio in cui dici che sei mia schiava e della vita non ti importa niente e me la consegni”.

Questa è una delle frasi che ha rivolto l’indagato ad una minore nell’ambito della partecipazione di entrambi ad un “gioco” noto con il nome di “Blue Whale“. L’ideatore del gioco è Philipp Budeikin, un giovane di 21 anni, studente di Psicologia, recluso in un carcere russo dal 2016. Parliamo di un profilo che si avvicina molto a quello di un serial killer.

Questo macabro rituale si è diffuso a macchia d’olio e dalla Russia ha raggiunto il Brasile, la Francia, l’Inghilterra e l’Italia.

Il “gioco” dell’orrore ha già ucciso circa 160 adolescenti in Russia.

Prevede 50 azioni, una al giorno, come “preparazione alla morte”, e si concretizza con il gesto ultimo di lanciarsi nel vuoto da un edificio.

Le regole da seguire sono caratterizzate da autolesionismo, come ad esempio incidersi la pelle o tentare di tagliarsi le vene dei polsi con lamette; guardare film dell’orrore per 24 ore continuative, ascoltare una particolare musica con video psichedelici e non dormire.

Con la sentenza n. 57503 depositata il 22 dicembre 2017 gli Ermellini, occupandosi proprio del Blue Whale Challenge, hanno chiarito che non è punibile l’istigazione accolta cui non consegue la realizzazione di alcun tentativo di suicidio o se conseguono solo lesioni lievi o lievissime.

Nella pronuncia la Suprema Corte ha spiegato i motivi per i quali la condotta criminosa posta in essere dal c.d. master o curatore potrebbero non configurare il reato di istigazione al suicidio, bensì il meno grave delitto di adescamento di minorenne.

Nel caso de quo l’indagato, prendendo parte al Blue Whale Challenge, aveva inviato ad una minorenne alcuni messaggi, tra cui quello sopra riportato, a fronte del quale il Pubblico Ministero, aveva quindi ravvisato i delitti di istigazione al suicidio ex art. 580 c.p. e di adescamento di minorenne ex art. 609-undecies c.p. ed aveva disposto con decreto il sequestro probatorio del telefono cellulare e del materiale informatico dell’indagato.

L’indagato impugna il decreto di sequestro, che viene successivamente confermato dal Tribunale del riesame; propone, pertanto, ricorso in Cassazione, deducendo, tra gli altri motivi, la violazione di legge, poiché il reato di istigazione al suicidio non era configurabile nel caso di specie non avendo la minore tentato di togliersi la vita.

Assume sempre l’indagato, che anche il reato di adescamento di minore non era ipotizzabile, tenuto conto dell’atipicità della condotta rispetto alle previsioni del codice, essendo stata compiuta mediante l’invio di messaggi telefonici.

Ebbene, la Corte di Cassazione ha accolto solo in parte le censure mosse dalla difesa, ritenendo insussistente il solo reato di istigazione al suicidio.

Quello che osservano i Supremi Giudici è che l’art. 580 c.p punisce l’istigazione al suicidio (…) a condizione che la stessa venga accolta e il suicidio si verifichi o, quanto meno, il suicida, fallendo nel suo intento, si procuri una lesione grave o gravissima (cfr., in senso conforme, Cass. pen., sez. III, sent. 29.09.2016, n. 8691; Cass. pen., sez. III, sent. 04.03.2015, n. 16329).

Per la Corte il reato de quo si configura solo nel caso in cui dalla condotta derivi l’esecuzione del proposito suicida ovvero il fallimento dell’intento suicidario con lesioni definibili gravi o gravissime in base a quanto previsto dall’art. 583 c.p..

Il Tribunale di Roma, quindi, aveva erroneamente ritenuto sussistente il fumus del delitto di istigazione al suicidio ipotizzato dal Pubblico Ministero.

Si deve però sottolineare come tutto ciò non sia stato sufficiente a determinare l’annullamento del provvedimento impugnato. Perché?

L’inoltro del su citato messaggio aveva comunque integrato, per i Supremi Giudici, gli estremi del reato di adescamento di minorenni, di cui all’art. 609-undecies c.p., che punisce qualsiasi atto, che può concretarsi attraverso artifici, lusinghe o minacce, compiuti attraverso la rete internet o altro mezzo di comunicazione, volto a carpire la fiducia del minore.

Per tali ragioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dall’indagato, confermando la pronuncia del Tribunale del riesame e, pertanto, la piena legittimità del provvedimento cautelare.

Leggi anche: Istigazione ed aiuto al suicidio: il caso Marco Cappato

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