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Cina: Fioccano le richieste di risarcimento danni per epidemia Covid-19

Le Responsabilità della Cina per l’epidemia Covid-19: il caso.

Le Responsabilità della Cina per l’epidemia Covid-19: il caso.

Donald Trump è sempre più convinto che il Covid-19 sia stato prodotto da un laboratorio di Wuhan. Le sue parole: «Lì deve essere successo qualcosa di terribile. Può essere stato un errore, qualcosa che si è sviluppato inavvertitamente, oppure qualcuno lo ha fatto di proposito».

L’agenzia Reuters, ha riportato che quando a Mister President è stata posta la domanda se avesse visionato prove capaci di fornirgli quella che lui ha definito «un alto grado di sicurezza» circa l’origine del virus nell’Istituto di virologia di Wuhan, Trump ha risposto «sì, sì, le ho viste», precisando però di «non poter parlare oltre».

Il convincimento della comunità scientifica è che l’ipotesi più probabile prefiguri l’origine naturale del virus, passato dagli animali agli uomini. Dello stesso parere è anche l’Ufficio della DNI, la Direzione Nazionale dell’Intelligence. Questo il pensiero di Trump.

Ma il mondo ora si mobilita per chiedere risarcimenti alla Cina per la pandemia di Coronavirus.

Chi potrebbe essere il probabile responsabile del risarcimento dei danni conseguenti alla pandemia?

La Cina viene ritenuto lo Stato responsabile e le iniziative per intentare le richieste di risarcimento sono le più disparate.

C’è chi ha denunciato la dirigenza cinese alla Corte penale internazionale e chi invece ha proposto una petizione per trovare uno Stato che intenda assumersi l’onere di iniziare un procedimento contro la Cina di fronte alla Corte internazionale di giustizia. Ma tutto è ancora allo stato embrionale in quanto le varie proposte non si sono ancora tramutate  in iniziative più o meno efficaci.

Le azioni USA.

Gli USA hanno  introdotto azioni legali promosse da coloro che si ritengono danneggiati dalla gestione della Cina dell’epidemia di coronavirus. Le accuse vanno dalla negligenza nel prendere le misure di contenimento dell’epidemia sino all’accusa di aver condotto esperimenti senza aver preso le misure necessarie per impedire la diffusione del virus.

E class action sono state già intraprese in California, Florida, Nevada e Texas. Il Missouri, nella causa civile depositata in una corte federale, lamenta la perdita di vite e decine di miliardi di dollari di danni, chiedendo un risarcimento. Ma secondo l’opinione di numerosi esperti di diritto internazionale interpellati dall’agenzia Reuters sul piano legale l’azione del Missouri sembra destinata a non avere successo.

Ad esempio Tom Ginsburg, professore di Diritto internazionale all’Università di Chicago, mette in evidenza che la dottrina legale dell’immunità sovrana garantisce ai governi stranieri ampia protezione da eventuali cause intentate presso tribunali americani.

Dello stesso parere è anche Chimène Keitner, professore di Diritto internazionale dell’Università della California: «Se gli Stati Uniti vogliono intentare causa alla Cina, devono farlo in una corte internazionale».

La risposta di Pechino non si è fatta attendere.

Il portavoce del ministero degli Esteri, Geng Shuang, ha ricordato come le misure adottate dalla Cina siano “al di fuori della giurisdizione dei tribunali americani; e poi l’ha definita, “questa cosiddetta denuncia, che non si basa su fatti o prove” come “completamente assurda“. Analoga azione è stata intrapresa da un altro stato USA: il Mississippi.

Ma anche l’Europa si è mobilitata contro la Cina.

Lo hanno già fatto Francia e Regno Unito e in Italia il Codacons sta raccogliendo adesioni per proporre eventuali azioni di risarcimento danni nei confronti della Cina di fronte ai nostri tribunali.

Il risarcimento viene richiesto alla Cina in ragione di due diversi profili di responsabilità che hanno portato alla diffusione del contagio e, di riflesso, al contagio dell’attrice: commercializzazione di animali selvatici all’interno del wet market di Wuhan, presunto luogo in cui sarebbe avvenuto lo spillover, ovvero il salto del virus agli umani, e per ritardo ed omissioni nella comunicazione dell’esistenza di casi di polmonite a causa sconosciuta.

La prima udienza si terrà a settembre e i giudici dovranno accertare se le condotte della Cina abbiano comportato la diffusione del coronavirus. Condotte che, secondo il Codacons, ledono il diritto alla salute inteso quale diritto inviolabile dell’individuo e configurano la giurisdizione del giudice italiano dinnanzi al quale viene esercitata l’azione di risarcimento danni.

In Italia, infine, ha fatto scalpore di recente l’iniziativa dell’Hotel De La Poste di Cortina d’Ampezzo che ha citato per danni il ministero della Sanità cinese dinanzi al Tribunale di Belluno. Secondo l’Hotel, i responsabili cinesi non avrebbero tempestivamente segnalato all’Organizzazione Mondiale della Sanità lo stato del diffondersi del virus.

Ma quale margine di successo possono avere queste azioni?

Le speranze sono davvero poche. Pur tralasciando la circostanza se la Cina sia effettivamente responsabile per la propagazione del Coronavirus, esiste un principio di diritto internazionale che sancisce che gli Stati esteri non possono essere convenuti in giudizio per attività pubblicistiche, connesse alla loro sovranità, come ad esempio  quelle legate  alla gestione della salute.

Quindi, per convenire in giudizio la Cina bisognerebbe dimostrare che l’attività espletata nel laboratorio di Wuhan era di natura privatistica, ovvero destinata alla fabbricazione e commercializzazione di prodotti farmaceutici. In una delle class action avviate dagli USA è stato addirittura chiamato in causa il partito comunista cinese e il presidente della Repubblica.

Però il partito comunista si identifica con lo Stato e il Presidente Xi Jinping, nella sua qualità di capo di stato, è protetto dall’immunità e comunque la sua condotta è imputabile allo Stato cinese. Gli Stati Uniti hanno anche presentato al Congresso alcuni progetti di legge per limitare l’immunità giurisdizionale, anche se avranno scarse probabilità di successo. Rebus sic stantibus i tribunali interni dovrebbero dichiararsi incompetenti a giudicare la controversia.

E lo stesso vale anche per l’Italia. L’unica scappatoia potrebbe essere quella di invocare un’eccezione consolidata nella giurisprudenza italiana, in base alla quale uno Stato estero può essere convenuto in giudizio anche per attività sovrane, quando queste ledano principi inderogabili del diritto internazionale.

Inoltre avviare un’azione contro uno stato estero potrebbe presentare una difficoltà ulteriore. Supponendo che il tribunale si dichiarasse competente e la class action avesse esito vittorioso, come potrebbe essere nella pratica messa in esecuzione la sentenza e, soprattutto, in che modo si potrebbe ottenere il risarcimento?

La strada potrebbe essere quella di porre sotto sequestro beni cinesi nello Stato che ha emesso la sentenza o in quello che decidesse di metterla in esecuzione. In questo campo il diritto internazionale è molto restrittivo, in quanto tende ad assicurare un’adeguata tutela dei beni stranieri.

Oltre le azioni risarcitorie, vi sono altri modi per accertare la realtà dei fatti?

La cosa più logica sarebbe costituire una commissione d’inchiesta composta da esperti indipendenti, che potrebbe operare sotto l’egida del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, o sotto quella del Consiglio dei diritti umani o di altro organismo internazionale. Bisognerebbe garantire ai membri della commissione un accesso incondizionato ai luoghi per poter interloquire con le persone interessate.

A questa proposta, di cui è stata promotrice l’Australia, la Cina si è subito opposta. L’Australia ha preso contatto con diversi governi occidentali, ottenendo però solo il consenso degli Usa, ma non quello del Regno Unito, della Francia e della Germania.

I membri dell’Unione Europea hanno sul punto un atteggiamento molto cauto e un rapporto del Servizio europeo per l’azione esterna è stato tenuto riservato. L’alto rappresentante dell’Unione Europea, Josep Borrell, in audizione all’Europarlamento ha ribadito l’indipendenza del Servizio europeo per l’azione esterna.

“Assicuro che nessuna modifica è stata apportata per accontentare il governo di Pechino” così Josep Borrell.

La Cina ha effettivamente espresso “preoccupazione” per l’ultimo rapporto sulla disinformazione del Servizio europeo per l’azione esterna, prima che venisse pubblicato ufficialmente. Circa il suo coinvolgimento nella diffusione di fake news e informazioni fuorvianti sul Coronavirus in Europa.

In audizione di fronte alla commissione Affari esteri dell’Europarlamento, Josep Borrell ha assicurato che il rapporto non è stato manipolato, rispondendo così alle accuse rivolte al Servizio per l’azione esterna dal New York Times. Secondo la testata USA l’Unione europea avrebbe ammorbidito l’ultima pubblicazione relativa alla disinformazione sul Covid-19 in seguito ad alcune lamentele avanzate dal governo cinese.

La teoria del doppio documento.

Borrell ha confermato che da principio esistono due diversi documenti, uno esclusivamente ad uso interno e l’altro elaborato per la pubblicazione. Nel primo documento sono contenute una serie di riflessioni che, per evitare incidenti diplomatici, devono essere accuratamente verificate prima di essere pubblicate.

Posso garantire, sottolinea ancora, che nessuna modifica è stata apportata alla prima versione a causa delle preoccupazioni espresse dalla Cina”.

E Borrel aggiunge che: “il servizio di azione esterna cercherà di mantenere il suo ruolo leader nel raccogliere e combattere la disinformazione anche sul Coronavirus”.

Devo essere sincero, afferma ancora Borrellla disinformazione è in grado di uccidere“.

I possibili sviluppi.

Il seguito delle accuse mosse alla Cina possono verificarsi due sviluppi. Una strada potrebbe essere quella di ricorrere a sanzioni economiche unilaterali degli altri Stati, soprattutto di natura commerciale che approfitterebbero dello stato di impasse in cui si trova l’Organizzazione mondiale del Commercio per la paralisi del suo Organo d’appello.

L’altra, invece, potrebbe essere quella tesa alla creazione di una commissione di inchiesta internazionale che si occupi e preoccupi di accertare i fatti in loco. Ma questa seconda opzione, che nasce da una proposta dall’Australia, e a cui si è accennato innanzi,  sembra purtroppo destinata a non avere seguito.

La Cina, infatti, potrebbe non prestare il suo consenso affinché una tale fact finding commission, composta di esperti indipendenti, possa svolgere il suo mandato sul territorio cinese. Pechino ha già bollato l’iniziativa di Canberra come motivata politicamente e «based on the presumption of guilt».  

Non resta, quindi, che attendere gli esiti delle varie azioni intraprese nei confronti della Cina.

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