Cinema

Le Samourai: Il capolavoro di Melville

Le Samourai: 53 anni fa usciva il capolavoro noir di Jean Pierre Melville, con un Alain Delon da antologia.

Era il 19 ottobre 1967 quando usciva uno dei noir polizieschi più importanti ed influenti di tutti i tempi: Le Samourai, del grande Jean Pierre Melville.

Tradotto in Italia con un improbabile Frank Costello Faccia d’angelo, il film di Jean Pierre Melville aveva in Alain Delon il memorabile protagonista all’interno di un iter di enorme complessità formale e tematica, in cui il grande regista francese unì sia elementi cari al noir (sia americano che europeo), che alla cultura giapponese così come alla nouvelle vague, che spingeva per una maggior attinenza alla realtà, uno stile quasi documentaristico.

Un killer in una Parigi oscura e labirintica.

Le Samourai, grazie ad una magnifica fotografia di Henri Decae, ancora oggi stupisce per la grazia, l’eleganza ed assieme la potenza con cui fu capace di stregare il pubblico, di guidarlo dentro i vicoli di una Parigi che fu descritta dalla regia del cineasta francese come una giungla, un labirinto, un dedalo di vicoli, stanze, in cui l’oscurità, la pioggia, la freddezza di una metropoli spietata ed ostile avvolgevano ogni cosa.

E lì dentro, si muoveva con fare felino e gelido Jef (Alain Delon), killer professionista dalla disciplina adamantina, metodico, astuto, spietato ma dotato di un proprio codice d’onore, non poi dissimile da quello di un Samurai, chiamato però a servire non uno Shogun ma soprattutto se stesso, all’ideale di perfezione che il suo mestiere richiedeva.

Le Samourai ci mostrava la sua sanguinaria vocazione, con il delitto di un proprietario di nightclub, eseguito dopo essersi costruito un alibi grazie alla fidanzata Jane (Nathalie Delon), che non permetterà al Detective Capo (Francois Perier) di incriminarlo.

Tuttavia da quel momento Jef sarà costretto a fuggire, sia dai poliziotti decisi a braccarlo, che dai mandanti decisi ad eliminarlo perché preoccupati che gli possa parlare. Difatti non ha previsto che esiste una persona che lo può incastrare per l’omicidio commesso: la bella pianista Valerie (Cathy Rosier).

Le Samourai è un film rivoluzionario.

Melville fece del suo Jef un uomo connesso ad una dimensione quasi meccanica della vita, eppure capace lo stesso di esprimere grazia, un senso dell’onore ed integrità in perfetta disarmonia rispetto al suo essere un uccisore di uomini.

A conti fatti il paragone fatto da molti verso la Tigre, rende perfettamente l’idea di una creatura ferale, solitaria, che non può fidarsi di nessuno. Magistrale nel rendere semplici gesti quotidiani parte di un rituale prismatico, Le Samourai era connesso in modo profondo a film come Il Fuorilegge di Frank Tuttle o Un Condannato a Morte è Fuggito di Bresson.

La morte, la morte era la vera protagonista di un film in cui in realtà essa quasi non compariva mai, ma aleggiava, era nelle azioni, nei pensieri, nel modus vivendi di quello che più che un gangster della mala, era soprattutto un simbolo di una diversità esistenziale, di un conflitto interiore per il quale uccidere quella testimone diventava improvvisamente qualcosa di inaccettabile.

Un noir che rifiutava la dimensione epica.

A conti fatti, con il suo sguardo gelido e le movenze feline, Alain Delon si allontanò molto anche dall’epica hollywoodiana che aveva reso banditi e gangsters dei Robin Hood. Qui invece egli, nella sua connotazione notturna e sotto le righe, nel suo essere una creatura fatta di silenzi e di sguardi, fu paradossalmente molto più umano, lontano dalla dimensione soprannaturale dell’eroe.

Di base infatti, difficile trovare epica nella Nouvelle Vague, a cui questo film si collegò dal punto di vista formale, nella costruzione spartana dell’habitat e delle scene, nel simbolismo di quell’uccello in gabbia che altro non era che Jef, che noi tutti.

L’eredità del capolavoro di Melville.

Difficile anche quantificare l’influenza di Le Samourai, opera di enorme bellezza di uno dei registi più incompresi di sempre, di certo possiamo dire che Melville, grande amante dell’America e del suo cinema, superò i limiti narrativi e tematici d’oltreoceano, ed assieme propose una dimensione in cui l’umanità e soprattutto i personaggi erano i veri protagonisti.

Il cinema di Michael Mann e Walter Hill, quello dei Fratelli Coen e anche di Jim Jarmusch gli devono moltissimo, e se ci riflettiamo bene, la sua capacità di rendere gesti e sguardi importanti quanto i dialoghi l’abbiamo ritrovata in un numero sterminato di personaggi che hanno fatto grande il cinema orientale (John Woo in testa), così come permesso a Keanu Reeves di rendere il suo John Wick un personaggio mitico del cinema di questi anni.

Peccato però che l’eleganza essenziale, la cura per i dettagli, la capacità di rendere semplici fermate della metro o stanza buie dei quadri in movimento, di dominare la luce e l’oscurità che Melville mostrò in Le Samourai, non siano più stati parimenti recuperati.

Così come la sua capacità di rendere universale quella che in realtà era una storia di libertà, di ribellione di un individuo contro le regole della società, contro il suo mondo, persino contro la morte, visto che alla fine era lui a decidere quando essa lo doveva prendere.

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