Musica

Intervista al Maestro Maurizio D’Alessandro

Intervista al Maestro Maurizio D’Alessandro, ideatore del Festival Liszt.

Benvenuto Maestro Maurizio D’Alessandro, grazie per avere accettato la mia intervista. È un autentico piacere e un’opportunità per tutti gli appassionati di musica classica.

Grazie a lei.

Lei è un musicista dall’idioma colto, raffinato, che distilla le sue scelte di musica classica.

Ma, l’incipit di questa sua passione, declinata anche nella storia della musica, si è rivelata immediatamente con il genere classico?

Si. Ma direi che l’approccio con la musica cosiddetta classica è stato comune a molti musicisti della mia generazione e i motivi sono disparati e pertinenti un’epoca in cui la divisione fra generi era più marcata rispetto a oggi.

La mia formazione, cosi come per molti strumentisti a fiato, è nata in seno alla banda musicale che negli anni settanta a differenza di oggi portava ancora con se il retaggio tardo – ottocentesco in cui lo scopo era proprio quello della diffusione della musica classica negli strati più popolari della società e quindi con una funzione altamente divulgativa, partendo dalle trascrizioni di partiture per orchestra dei più celebri compositori di musica sinfonica e operistica.

L’apprendistato insomma è stato impegnativo, ma poi rivelatosi fruttuoso nel tempo. A dieci anni sapevamo riconoscere una ouverture di Rossini da una sinfonia d’opera di Verdi e così via. Impensabile per un giovane di oggi.

Il percorso di studi in Conservatorio si fonda necessariamente sulla musica che in maniera omnicomprensiva definiamo musica classica. Ma ormai da diversi anni sono stati inseriti specializzazioni in jazz o nella musica elettronica.

La musica, come l’arte e la poesia, consente di sfiorare i luoghi segreti, intimi, interiori dell’essere, capace com’è di ri-creare ogni volta la sia ascolta atmosfere suggestive, reali o surreali, concrete oppure oniriche, visionarie. L’essenza del musicista è quello di veicolare il suono nel nostro immaginario fissando appigli emozionali, ma alcuni musicisti contagiano come un morbo con le loro interpretazioni rendendole indimenticabili.

Quale caratteristica rende un musicista avvincente?

L’ineffabilità del linguaggio musicale porta con se una ricchezza che non può e non deve essere ricondotta alla semanticità della parola. Il musicista che interpreta l’opera musicale deve essere consapevole che la sua azione interpretativa è si una ri-creazione che non può però esulare dal significato poietico voluto dal compositore.

Direi che quello che lei chiama avvincente dal lato della ricezione è la costante percezione di una comprensione del testo musicale da parte dell’interprete ovvero la sua capacità di tenere in continuo essere proprio quelle due direttrici.

La personalità musicale dell’interprete unitamente alla sua sensibilità sono indubbiamente un portato che crea punti di chiarezza da parte dell’ascoltatore. Una sbiadita se pur precisa esecuzione denota la mancanza di una vitalità del brano che appare così distante, noioso.

La complessità di narrare un compositore e la sua musica è sempre un lavoro intenso. Entrare nell’anima di uno spartito credo sia condizione necessitante che s’insinua sottopelle.

Quanto è necessario essere compenetrati dalla cultura del compositore per eseguire un brano? E il virtuoso s’individua immediatamente?

Oltreché della cultura del compositore aggiungerei che è necessario contestualizzare storicamente i repertori che si eseguono. A dire che ci sono repertori che sono stati pensati per una fruizione più immediata, altri che invece non soggiacendo strettamente a logiche consumistiche ed economiche sono andate oltre l’immediato della propria epoca.

Si pensi alle sinfonie di Beethoven o soprattutto alle sue ultime sonate per pianoforte o agli ultimi quartetti. Si pensi soltanto allo sfortunato Schubert o al portato estetico e filosofico della poiesi musicale di Robert Schumann.

Lei parla di virtuoso quale musicista che padrone di una tecnica formidabile è in grado di magnificare oltre ogni misura le complicazioni e difficoltà costruttive di un brano. Paganini e Liszt sono notoriamente gli eponimi di questa accezione con in più l’aggiunta del fatto che erano nel contempo compositori e interpreti.

Se vogliamo caricare il termine virtuoso anche di quella sensibilità che porta l’interprete a rendere finemente intellegibili le trame sonore di un brano potrebbe essere questa l’accezione che intende lei. Normalmente il termine virtuoso viene inteso proprio come funambolo della musica.

Oggi penso che il termine virtuoso comprenda anche altri parametri: il sapere governare le nuances dei suoni oppure aggiungere una inusitata lettura del brano che apre a nuove visioni interpretative.

Maestro Maurizio D’Alessandro, lei ha citato Franz Liszt tra i virtuosi. Infatti ad un certo punto della sua carriera si concentra proprio sul pianista e compositore ungherese ideando uno tra i più importanti appuntamenti musicali d’Europa: Il Franz Liszt Festival di Albano. Giunto al trentesimo anniversario nel 2017 il festival ospita, nella cornice di Palazzo Savelli, pianisti di pregio internazionali.

Quanto è legato Maurizio D’Alessandro a questo evento e quali sono stati i passaggi nodali per giungere al successo?

Si può sembrare strano che un clarinettista quale io sono si interessi ad un virtuoso del pianoforte. Posso dire in tutta onestà che l’interesse è nato dal fatto di riportare alla luce il rapporto che Liszt ebbe con Albano già dal 1839, omaggiandolo con un festival musicale dedicato diventato ora il festival lisztiano più longevo e importante in Italia.

Questo mi ha permesso di approfondire una delle più importanti personalità musicali dell’ottocento. E quello che mi ha attratto è stato scoprire le sfaccettature di un uomo che ha vissuto secondo l’afflato romantico di una totalità.

In Liszt il compositore, il virtuoso, il direttore d’orchestra, ma anche il pensatore, insomma il multiforme Liszt, convergono in una poliedricità che sottende ciò che lui chiamava “un continuo progresso” che egli con coerenza ed audacia applicò lungo l’arco della sua vita e che riportò con notevole chiarezza nei suoi scritti sulla musica.

I suoni per Liszt dovevano essere la traduzione non solo dei sentimenti dell’uomo e dei moti dell’animo, ma anche del suo enigmatico destino. Così che tutto ciò che di esterno è per l’uomo – dalla sfera religiosa, alla sfera visiva, dalla poeticità delle cose al linguaggio dei sentimenti – ebbene tutto ciò e quanto altro possa concorrere e incidere sulla vita interiore, avrebbe incontrato nel medium della musica la sua più eclatante trasfigurazione.

Quanto al festival Liszt di Albano va da se che avendolo fondato ne sono molto orgoglioso. Il suo successo si deve a tanti fattori: il primo è avere creduto fin dall’inizio a non fare spettacolo ma un serio tentativo di immanenza con l’orizzonte della cultura.

Una sfida certamente, in quanto la cultura richiede un arco più lungo per affermarsi e soprattutto richiede al pubblico un “lavoro” intellettuale che non fa il paio con la frettolosità e l’intrattenimento tout court.

Nell’armonia compositiva di Franz Liszt, sorprende come ogni singola nota sembri avere una vitalità anche propria, continuamente in divenire e mutante, nulla è calma, quiete, ciò muove ansie, attesa, trepidazione.

Nella musica viene prima l’azione o il pensiero e quanto è condizione necessitante il dialogo fra coscienza e conoscenza?

Dal punto di vista del compositore il pensiero. Il retaggio di certa letteratura romantica ha fatto credere che l’opera compositiva fosse scaturita di getto dalla mente dell’autore. L’idea, l’incipit per realizzarsi ha bisogno di una elaborazione sottesa dal pensiero.

Ciò è possibile ritrovarlo anche nel riduzionismo concettuale delle avanguardie musicali del secondo novecento che investe ambiti come la musica concreta o la musica aleatoria. Si pensi anche alla cifra razionale della musica atonale, dodecafonica.

Dal punto di vista dell’interprete l’azione interpretativa è quella del fare ovvero suonare per costruirsi un pensiero personale che può anche stravolgere parzialmente o del tutto l’opera interpretata. L’azione di getto mossa da una istintività interpretativa richiede però sempre un pensiero. Ciò è riconducibile anche al concetto aristoteliano che Fare e Apprendere hanno una contemporaneità.

Nel 1865 Franz Liszt divenne accolito della Chiesa cattolica. Precedentemente anche terziario francescano e poi canonico nella Cattedrale di Albano Laziale (città dove anche lei Maestro vive). Quando si arriva alla perfezione della tecnica si è maggiormente predisposti all’incontro con l’immateriale, la trascendenza, l’assoluto.

Nell’arte ci si avvicina all’immateriale rendendo visibile il non-visibile;

Nella musica come si arriva a dare il senso dell’immateriale? E come si riesce a far emergere la bellezza non-oggettiva?

Lei ha ragione. L’affrancamento dalla tecnica libera la mente. Ma la musica è immateriale, soprattutto la musica pura strumentale: pensi soltanto a Bach, alle sue Variazioni Goldberg, ai Preludi. Si arriva a dare il senso dell’immateriale forse quando non si vuole necessariamente ricondurre un incipit tematico o una frase forzatamente al suo significante.

D’altra parte Hainslick nel suo Il bello musicale (1854) poneva in essere più specificatamente la bellezza legata alla forma ovvero alle relazioni sintattico musicali scardinando i vincoli estetici di qualcosa che rimanda all’extra musicale, opponendosi in sostanza al sentimentalismo romantico.

Le aggettivazioni (solenne, grazioso, malinconico etc) in sostanza richiamerebbero stati emotivi soggettivi che non si possono escludere, saranno sempre presenti ma secondari rispetto all’essenza stessa della musica in quanto arte in se.

Quanto alla bellezza non oggettiva occorre richiamare Kant che ci pone di fronte alla musica come ad un oggetto intenzionale ovvero regolato dall’apposizione relazionale delle strutture musicali costruttive; avvicinarsi alle loro dinamiche interne è come percepire l’acqua nella quale ci immergiamo; occorre avere la pazienza di divenire del tempo stesso sostanza della musica che in esso si realizza.

L’artista russo Wassilji Kandinskij, ideatore dell’Astrattismo Lirico, nel libro “Lo Spirituale nell’Arte” fonde “Suono, Forma, Colore e Spiritualità”: “forma, suono e colore sono un mezzo per esercitare sull’anima un’influenza diretta. Il colore è un tasto, l’occhio il martelletto che lo colpisce, l’anima lo strumento dalle mille corde”.

E teorizza un’infinità di possibilità.

Maurizio D’Alessandro, lei è d’accordo con la teoria di Kandinskij? E quale colore e forma associa al suono del Clarinetto e del corno di bassetto?

Ma certo è una teoria affascinante quella della sinestesia delle arti, soprattutto pittura e musica. Si pensi soltanto al pensiero di Oliveir Messian sul suono-colore in quelle sue composizioni nelle quali il compositore francese pensa musicalmente come potrebbe pensare un pittore la materia pittorica.

Del resto spesso diciamo non troppo impropriamente il colore di quello strumento, riferendoci al suo suono. La fisica ha ben indagato sui suoni armonici ovvero frequenze di un dato suono e le neuroscienze stanno approfondendo relazioni trasversali nelle aree ricettive specifiche de cervello.

E poi c’è l’aspetto psicologico della ricezione. Se si parla del clarinetto il cui termine deriva da clarus ovvero un registro dello strumento che ha una estensione verso le note alte, l’analogia con un giallo mi viene spontanea. Ma il clarinetto, volendo semplificare, ha anche un registro medio basso assocerei ai cromatismi del marrone. Per il corno di bassetto mi viene in mente il blu profondo.

La Musica con il suo potere magico, che si ritrova anche nel pitagorismo più antico, nella concezione della musica-medicina nel senso di una primigenia terapia musicale delle passioni e affezioni dell’animo, sembra aver posto le basi per un più definito impiego della musica a fini psicagogici, ovvero quella oggi conosciuta come Musicoterapia.

Lei quale musica ascolta nei momenti difficili?

Non esito un attimo: Mozart che io definisco il genio della purezza. La sua musica, si anche quella strumentale, è impregnata di teatralità nei cui accenti l’uomo si ritrova e si specchia.

I suoi maestri di clarinetto e di musica da camera quali sono stati?

Il primo sicuramente Vincenzo Mariozzi dal quale ho appreso soprattutto la bellezza del suono e del fraseggio. Poi l’incontro con altri importanti clarinettisti quali Peter Schmidl, Karl Leister che mi hanno trasmesso una lettura molto analitica della musica.

La sua formazione di alto profilo è ricca ed articolata.

Qual è la caratteristica imprescindibile, oltre allo studio e alla tecnica, per essere un eccellente musicista e cosa vuole trasmettere ai suoi allievi nell’attività didattica?

La spontaneità che è espressione del nostro essere e che per svariati motivi si tende invece a reprimere, a contenere. Agli allievi mi è sempre piaciuto trasmettere una visione ampia della musica, inglobando l’arte e la letteratura soprattutto toccando i repertori dal primo romanticismo in avanti.

Non si può non conoscere il tormento interiore di uno Schumann o di un Brahms alimentato dalle loro vicende personali o dalla loro formazione culturale qui si è il caso di dire che l’io della persona si riversa nell’opera d’arte, sebbene non sempre è così come sosteneva Marcel Proust.

E’ impensabile sapere suonare Debussy senza conoscere il sovvertimento della tecnica pittorica del suo tempo o il simbolismo dei poeti maledetti. E così di questo passo fin dentro la musica del ‘900 a cominciare da Schoenberg incomprensibile da interpretare il suo Pierrot lunaire o Un sopravvissuto di Varsavia senza conoscere i mali di quella società e il medium delle arti che visceralmente li hanno interpretati.

Nell’ambito della didattica lei fonda nel 1987 un ensemble strumentale, nella scuola secondaria di primo grado, dove per circa venti anni fa interagire novanta studenti con musicisti professionisti dando vita a una esperienza musicale originale e innovativa nella scuola italiana; per questo nel 1999 riceve l’encomio del ministro della pubblica istruzione Luigi Berlinguer che definisce il suo operato come eccellenza nella scuola italiana.

Eppure, proprio nella scuola dove l’educazione alla musica e all’arte dovrebbe costituire un valore, spesso incontra l’ostacolo di alcuni dirigenti.

Secondo lei perché?

E’ stata una magnifica esperienza gratificante quanto enormemente impegnativa. La mia personale esperienza mi ha fatto sempre incontrare perlopiù dirigenti che hanno facilitato le progettualtà di natura musicale. Se qualcuno pensa ancora che ci siano delle graduatorie che pongono un discrimine sulle discipline denunciano tutta la loro povertà intellettuale e forse pochi neuroni nel cervello.

La sua carriera è costellata di successi come solista esibendosi in numerosi teatri del mondo e vanta altresì illustri collaborazioni (Bruno Canino,Fernando Suarez Paz, Hugo Aisemberg, Michel Lethiec, Fausto Di Cesare, Roberto Cappello, Paolo Restani, Marcelo Nisinman, Kasimierz Morskj, Denis Weber, Amaury Wallez, Andre Cazalet, Cristian Ivaldi, Benoit Fromanger, Jean Louis Capezzali, Manfred Reuthe, Janos Acs;

e con i direttori Matyas Antal, Marco Angius, Kazimierz Morski, Nicola Samale e Pietro Borgonovo e inviti: festival Pablo Casals a Prades (Francia), e il Wilhelm Kempf a Juteborg (Germania); concerti in Austria, Francia, Belgio, Germania, Ungheria, Portogallo, Spagna, Canada, Argentina, Cuba, Emirati Arabi, Pakistan e Kazkstan.

Per concludere le pongo una domanda quanto mai banale: c’è un desiderio ancora inespresso per Maurizio D’Alessandro?

I desideri sono sempre tanti. Se proprio ne dovessi citare uno mi piacerebbe potere interpretare Mozart e il suo meraviglioso concerto per clarinetto K. 622 a Salisburgo. I greci filosoficamente dicevano: se ci credi accadrà!

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