Management

Brand Advocacy: non solo di Ambassador vive l’organizzazione 2.0

Brand Ambassador o Brand Advocate? 

Quanta confusione terminologica…

Da sempre il magico universo del marketing brilla e brulica di buzz word che attirano tecnici e fan, studiosi e professionisti. Spesso, tuttavia, il confine lessicale di fenomeni e figure professionali è mal perimetrato o volutamente nebuloso.

A riguardo, uno dei trade-off più attuali e interessanti è indubbiamente quello rappresentato dal ruolo dei Brand Ambassador rispetto a quello dei Brand Advocate.

Una scelta spesso sottovalutata o nemmeno contemplata dalle organizzazioni perché non se ne conoscono bene effetti, opportunità e ritorni di immagine.

La genesi riflessiva che ha portato al loro conio lessicale è la stessa: nelle organizzazioni, mantenere un esclusivo focus su prodotti e servizi non paga più da molto tempo.

Considerazione che vale anche per soluzioni e brand cosiddetti aspirazionali. Quelli che per definizione si vendono da soli.

Come mai prima d’ora, oggi l’equazione è invertita: i vantaggi competitivi si costruiscono sulla disponibilità dei clienti a farsi portavoce della bontà di un prodotto o di un servizio. Ma ancor più, a far risuonare con forza la marca che li identifica e i relativi core values nel cuore e nella testa di chi sta per iniziare una esperienza di consumo e utilizzo con gli stessi.

E il ruolo di cui parliamo non è da mediano o da comprimario, bensì da numero dieci.

Se l’obiettivo deve essere quello di favorire la propria Brand Awareness e sancire una riduzione del gap, fra posizionamento voluto e posizionamento effettivo, allora diventa capitale per l’azienda ascoltare la voce del proprio pubblico forgiando uno strategico spazio di espressione.

Qualsiasi commento, feedback, recensione espressi in merito al proprio brand è un dato utile da raccogliere e da analizzare. Uno stimolo da elaborare. Un potenziale valore da capitalizzare. E qui sorge il primo dubbio.

In che modo un’azienda sensibile a questi temi deve organizzare il proprio arsenale di customer cenyricity?

Come districarsi fra i confini segnati dai vari Brand Ambassador, Brand Influencer e Brand Advocacy?

La risposta, come spesso avviene, sta nel chiarire le identità di queste divise “professionali”.

I Brand Ambassador (o Influencer) sono blogger, testimonial, professionisti noti che vengono ingaggiati e pagati dall’azienda per sponsorizzare il proprio o i propri brand. Sono le loro biografie, il loro ascendente mediatico o la cassa di risonanza che generano a creare proselitismo e a conquistare nuovi follower.

Le componenti di credibilità e di fiducia sono chiaramente indispensabili: l’ascendente che questi evangelizzatori esercitano sui loro fan, “mettendoci la faccia”, è tale per cui, questi ultimi, provano o acquistano un prodotto o servizio per la sola garanzia che il loro idolo lo sta promuovendo.

La Brand Advocacy, invece, in quanto indicatore di Brand Loyalty, esprime il massimo grado di fedeltà del consumatore alla marca.

Gli Advocate sono clienti profondamente soddisfatti e fidelizzati al brand da tempo, tanto da essere disposti a parlare volontariamente della loro esperienza, facendosi portatori dei valori e dei significati che lo contraddistinguono. L’Advocacy può essere certamente considerata un’evoluzione del word of mouth marketing.

Questa permette di tesaurizzare importanti momenti relazionali con i clienti migliori e con quanti nuovi adepti essi riescono a portare a bordo e con costo effettivo degli stessi Brand Advocate, quasi pari a zero.

La loro attività promozionale è autentica, volontaria e quindi gratuita.

Ciò su cui è importante puntare il focus, per conferire un definitivo valore alla Brand Advocacy, è la capacità di imbastire un’efficace strategia della stessa sui Social.

Una Social Advocacy Strategy sostenuta da un piano editoriale solido e divulgata tramite il supporto dei due pubblici più importanti: clienti e dipendenti che proattivamente parlano e veicolano il brand di interesse attraverso i loro stessi network, perché investiti e orgogliosi dei successi del brand in cui credono.

Ma allora, quale scelta conviene che le aziende facciano per incrementare Brand Awareness e Reputation?

Statistiche e analisi di settore evidenziano dati interessanti e piuttosto inconfutabili: mentre il 18% delle persone tende a dare fiducia ai Brand Ambassador, ben il 92% crede preferenzialmente agli Advocate. In più, 9 clienti su 10 considerano le raccomandazioni provenienti da amici e persone vicine come il più credibile mezzo di pubblicità esistente; solo 2 su 10 afferma di porre la loro fiducia nei pixel degli online ads.

Nell’era digitale, infatti, le raccomandazioni peer-to-peer sono gli strumenti promozionali più potenti e in futuro non si potrà che muoversi ancor di più in questa direzione.

Pertanto, l’ingaggio di clienti interni ed esterni in grado di far risuonare le corde di un Brand nel sentiment di prospect (che con quei prodotti o servizi ancora non ha avuto un’esperienza di acquisto o consumo), diventa oggi un’arma con una doppia e complementare valenza per un’organizzazione sensibile: sul fronte interno dell’HR management, la Brand Advocacy diventa una leva motivazionale poco costosa e innovativa, che può rivelarsi una spinta all’azione potente e foriera di opportunità di crescita; sul fronte esterno, si tratta di un Caterpillar evangelizzante che porta nelle case (BtoC) e nelle aziende (BtoB) una nuova consapevolezza di vissuto del brand che affonda le sue radici, prima ancora che nell’impiego di un qualsivoglia prodotto o servizio, nell’esclusività di aderire ad una proposta di valore, che ha nella fiducia del cliente/consumatore l’algoritmo per vincere sui mercati e nel lungo termine.

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