Cultura

Companatico: aperistoria e fantasia

Pane e Aperitivo: comunque la si voglia pensare, sono stati loro i protagonisti degli ultimi mesi, nelle nostre vite Covid – modificate.

Panificazione casalinga e bicchierate semiclandestine alle riaperture dei bar hanno indignato, consolato, diviso e unito famiglie, congiunti, disgiunti e fazioni dei social. Ma perché? Perché in tanti ne abbiamo sentito così forte il richiamo e il bisogno, se non altro di discuterne?

La risposta – come spesso accade – va cercata nel sottosuolo, perché anche questa volta è di radici che stiamo parlando. Fare il pane è un gesto ancestrale, l’arte più umana che possiamo immaginare; segna un nuovo inizio, una rinascita. Se stessi girando un documentario anzi che scrivere questo articolo, potrei scegliere la colonna sonora di 2001 Odissea nello spazio: mentre il pane all’alba termina di innalzarsi segnando la curva dell’orizzonte domestico, il Sole ad est decreta la nascita di un nuovo giorno, di una nuova speranza, di nuove possibilità.

Omero, nell’Iliade, descrive lo scudo del Pelide Achille, tratteggiando un magnifico quadro di vita campestre. Narra di mietitori che tornano, la gioia dipinta sul viso, carichi di spine bionde, mentre fra loro, in mezzo, sta il re, sopra un solco, impugnando lo scettro ed esultando nel cuore.

Cerere, Giano, Saturno, Iside ebbero nelle loro are il biondo ornamento delle spighe. I rapsodi che vagando di terra in terra cantarono le gesta epiche di guerrieri antichi, non mancarono mai di esaltare l’odoroso e sapido pane, oro puro sulle mense antiche. Anche il pio Virgilio e l’arguto Orazio sciolsero sulle loro lire melodiose canti appassionati per il pane. Gli Ebrei furono – e sono – fervidi devoti del pane. Gesù lo divinizzò nel Mistero Eucaristico. Il pane, in sostanza, fu il primo segno di civiltà.

Quando l’uomo comprese che dalla terra poteva ottenere il più ambito premio, mettendo sulla pietra i chicchi di grano a cuocere al sole, fu la rivoluzione. Il primo panettiere preistorico si fece guidare dal profumo, e il resto è storia.

Il Pane rappresenta tutto: il Lavoro, l’Intimità Familiare, l’Umiltà, la Fiducia, la Vita stessa.

Certi popoli che hanno conservato nei costumi qualcosa di primitivo hanno per il pane un rispetto che rasenta la venerazione. In certe regioni della Sardegna, come nella Barbagia e nel Logudoro, è considerato peccato il calpestare o lo sciupare un pezzo di pane, perché visto ancora come un dono di Dio. Bisogna vedere con che serietà austera le donne sarde si accingono a lavorare il lievito santo.

Sembrano antiche sacerdotesse che, trapiantate nel cuore dell’isola, completano l’opera dei loro uomini con l’arte delle mani e solenni monodie. Per la ricorrenza dei morti cuociono il miglior pane e lo posano per la notte della venuta. I morti non mangeranno quel pane, ma guarderanno se nella loro antica casa si è ancora buoni e laboriosi. Sullo sposo e sulla sposa si gettava non il riso ma il grano, come augurio di abbondanza, lavoro e pace.

Come ci si può stupire, alla luce di tutto questo simbolismo, che nel momento di difficoltà, di solitudine, di paura, di tristezza, in tanti di noi si sia cercato conforto e nutrimento su tutti i piani nella pagnotta fatta in casa?

Mentre impastavamo a marzo e ad aprile scorsi forse non lo sapevamo ma, in un certo senso, ci stavamo riconnettendo ad un senso di noi stessi che ci mescolava alle nostre radici e alla nostra antica poesia, in un collante indissolubile, come succede all’acqua e alla farina.

E l’Aperitivo?

Delicatamente e senza pregiudizi, cerchiamo di spogliare questa parola dalle immagini che hanno scatenato le polemiche e di restituirle dignità. L’aperitivo è, in questa nostra analisi, quasi il contraltare dionisiaco nel binomio evocativo “pane e vino”. Gioioso e poco razionale, senz’altro. Momento di leggerezza, di bisogno di stare insieme, di brindare al solo fatto che si è vivi e che si è vivi insieme. 

Ho trovato un vecchio libro di ricette di cucina regionale nella libreria dei nonni. Uno di quei volumi di una volta, quando sulla copertina c’era solo il titolo, non le star della tv ammiccanti, con il mestolo e lo scalogno in bella mostra per darci lezioni su come essere fighi e crudeli come loro, no. Dopo la seconda di copertina, dopo la dedica e l’esergo di rito, ecco lì il primo capitolo dedicato proprio all’aperitivo.

Il capitolo s’intitola: “Ciò che viene prima”.

Ho il gusto di condividerlo parola per parola: “L’aperitivo è la prima bevuta di vino del pranzo, e questo è un momento bellissimo”. Potremmo, volendo, anche fermarci qui, ma andiamo avanti: “Il primo freddo calice di buon vino bianco, spumante secco, accompagnato a gustosi stuzzichini dal sapore di campagna e cascina, in un luogo bello e remoto, con gente simpatica, nella comune aspettazione di un pranzo ghiotto e speciale, è come il sabato del villaggio, una promessa e un rituale, quasi un primo bacio, un approccio a un’esperienza felicitante, una prima rivelazione di buon gusto appagato.

Mentre gusti gli stuzzichini, caldi o tiepidi, l’alcool frizzante profumato d’uva del brut, ti va giù e ti euforizza un poco, ti aiuta a vedere gente e pietanze in una predisposizione umana e allettante, ottimistica e indulgente. L’operazione aperitivo è dunque bella e importante: va fatta solo col vino e i bocconcini rustici. Ricordatevelo invitando amici. Un pranzo senza aperitivo è come una giornata d’amore senza principio e senza spinta”. Che altro si potrebbe aggiungere a queste pagine di pura prosa? Cose semplici forse: tanti sorrisi, tanto buon senso, e tanta buona energia.

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