Storia

Aung San Suu Kyi: donna speranza del Myanmar

Aung San Suu Kyi: leader politica birmana, già premio Nobel per la pace, è agli arresti dopo l’ennesimo colpo di stato militare.

Aung San Suu Kyi, attiva per molti anni nella difesa dei diritti umani sulla scena nazionale del suo Paese, oppresso da una rigida dittatura militare, si è imposta negli anni come capo del movimento di opposizione. Insignita del Premio Nobel per la pace nel 1991; nel 2007 l’ex Premier inglese Gordon Brown ne ha tratteggiato il ritratto nel suo volume Eight Portraits come modello di coraggio civico per la libertà.

La storia.

Suo padre, uno dei principali esponenti politici birmani, dopo aver negoziato l’indipendenza della nazione dal Regno Unito nel 1947, fu ucciso da alcuni avversari politici nello stesso anno, lasciando piccola Aung, di appena due anni, la moglie e altri due figli, uno dei quali sarebbe morto in un incidente.

Dopo la morte del marito, Khin Kyi, la madre di Aung San Suu Kyi, divenne una delle figure politiche di maggior rilievo in Birmania, tanto da diventare ambasciatrice in India nel 1960. Aung San Suu Kyi fu sempre presente al fianco della madre, la seguì ovunque ed ebbe la possibilità di frequentare le migliori scuole indiane e successivamente inglesi.

Tanto che, nel 1967, conseguì la prestigiosa laurea in Scienze Politiche ed Economia presso il St Hugh’s College di Oxford. Continuò poi i suoi studi a New York, dove lavorò per le Nazioni Unite e dove incontrò il suo futuro marito, Michael Aris, studioso di cultura tibetana, che sposò nel 1971 e col quale ebbe i due figli, Alexander (1972) e Kim (1977).

L’impegno politico.

Ritornò in Birmania nel 1988 per accudire la madre gravemente malata e qui vide la luce la sua ascesa politica. Fu tra i fondatori e primo segretario generale della Lega Nazionale per la Democrazia (LND), partito di opposizione alle dittature militari che hanno caratterizzato la storia birmana a partire dal 1962. Nel 1989 fu posta per la prima volta agli arresti domiciliari dalla giunta militare.

Era ancora agli arresti quando l’anno successivo l’LND trionfò alle elezioni conquistando l’81% dei seggi, ma i militari rifiutarono di cedere il potere e non ne riconobbero la legittimità. Nel 2003 scampò all’agguato nel quale persero la vita circa 70 sostenitori del partito. Trascorse quasi 15 anni tra carcere e arresti domiciliari nel periodo compreso tra il 1989 e il 2010, anno in cui venne definitivamente liberata.

Con il suo partito vinse con ampio margine le elezioni suppletive del 2012 e soprattutto quelle del novembre 2015, considerate le prime consultazioni libere tenutesi nel Paese dal 1962.

L’ombra dei Rohingya.

Pur rimanendo molto popolare in patria, è stata in seguito molto criticata a livello internazionale per la sua politica di governo, incapace di fermare la dura repressione dell’esercito nei confronti di alcune minoranze, in particolare quella dei Rohingya. Tra le accuse mosse nei suoi confronti vi fu quella di aver avallato i massacri commessi dai militari, rifiutandosi di ammettere che fossero da considerare un genocidio.

Lo scacchiere internazionale si è così mosso contro Aung San Suu Kyi ed il suo comportamento giudicato indifferente, anche da artisti come Bono Vox degli U2, mentre istituzioni come il Comune di Oxford, il sindacato britannico Unison e la University of Bristol hanno ritirato le onorificenze precedentemente concesse.

Alcuni esperti di crimini di Stato dell’Università di Londra Queen Mary hanno sostenuto che Suu Kyi sta “legittimando questo genocidio” in Myanmar e che nonostante la continua persecuzione «non vuole neanche ammettere la conclamata campagna di stupri, omicidi e distruzione perpetrata da parte dell’esercito ai danni dei villaggi Rohingya», popolo al quale non vuole neppure concedere la cittadinanza.

La difesa e le critiche internazionali.

Il 27 settembre 2018 il parlamento del Canada ha decretato, con votazione unanime, la revoca della sua cittadinanza onoraria canadese. Il 12 novembre 2018 Amnesty International le ha revocato il premio “Ambasciatore della coscienza”, accusandola di non aver sufficientemente salvaguardato i diritti umani nel suo Paese. Nel 2019 il Gambia (Stato africano a maggioranza musulmana), denuncia formalmente Aung San Suu Kyi alla Corte internazionale di giustizia con l’accusa di genocidio verso i Rohingya.

Nel 2019, Aung San Suu Kyi è apparsa davanti alla Corte internazionale di giustizia dove ha difeso l’esercito birmano dalle accuse di genocidio contro i Rohingya. In un discorso di oltre 3.000 parole, Suu Kyi non ha usato il termine “Rohingya” per descrivere il gruppo etnico. Ha affermato che le accuse di genocidio fossero “incomplete e fuorvianti” sostenendo che la situazione era in realtà una risposta militare birmana agli attacchi dell’Esercito della Salvezza Arakan.

La caduta.

E’ rimasta in carica fino al colpo di Stato militare del 1 febbraio 2021, messo in atto proprio da quell’esercito che lei aveva tentato inspiegabilmente di difendere sul panorama internazionale, che ne ha provocato la destituzione e l’ennesimo arresto.

Il Paese è piombato nel caos ancora una volta, con proteste giornaliere per le strade e la dura repressione militare, sfociata nella morte di alcuni manifestanti, per lo più giovani e studenti. Proprio la generazione che, grazie all’opera della Suu Kyi, ha avuto per la prima volta un respiro internazionale, permettendo di guardare oltre i confini della dittatura anche delle idee perpetrata nei confronti dei loro genitori dall’ex Birmania.

Tante luci e qualche ombra per una donna, leader carismatica, ancora una volta ingiustamente detenuta, mentre cercava semplicemente di difendere i pilastri fondanti della sua esistenza: la democrazia e la libertà del suo Myanmar.  

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