Avevamo Bisogno di Trainspotting 2?

Trainspotting. Non è usuale intitolare un articolo con una domanda, specie di questa durezza, ma la riflessione che ho da porre e il film in esame giustificano questa scelta. Nel 2017, nelle sale, usciva la seconda parte del cult Trainspotting. Questa notizia mi ha sorpreso fino al punto di essere spinto a rivedere il film […]

Maggio 2018
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Avevamo Bisogno di Trainspotting 2

Trainspotting.

Non è usuale intitolare un articolo con una domanda, specie di questa durezza, ma la riflessione che ho da porre e il film in esame giustificano questa scelta. Nel 2017, nelle sale, usciva la seconda parte del cult Trainspotting.

Questa notizia mi ha sorpreso fino al punto di essere spinto a rivedere il film e confermare le mie perplessità: che senso ha continuare un’opera compiuta? Spinto dal quesito sono andato al cinema, e paradossalmente, le mie domande sono aumentate! Andiamo per gradi.

Trainspotting è un’opera fondamentale: non per tema – quanto più nella maniera in cui viene esposta e ancor di più nel contesto.

L’Inghilterra degli anni ’90 era scossa dal fenomeno hooligans, tuttavia nell’immaginario collettivo i tifosi violenti non avevano mai posto l’attenzione sui temi dell’opera di Boyle (ispirata al romanzo omonimo di Welsh, che ne ha curato la sceneggiatura): droga e disagio giovanile.

Sì, per la prima volta, e con toni duri e diretti, i giovani inglesi erano stati disegnati come rozzi, scansafatiche e drogati – questo stereotipo era utilizzato solo per descrivere i tifosi, ma mai sugli altri sudditi della regina.

Ma perché l’opera è entrata nel culto pop?

Uno dei fattori è sicuramente il tema della droga, non in quanto tale, ma per la maniera surreale in cui ci viene mostrata: senza censura e peli sulla lingua.

Viene mostrato il disagio tra loro, tra la gente, a lavoro.

Soprattutto c’è una durezza di fondo mai vista prima, viene mostrata la droga, ragazzi che si drogano e soprattutto un bimbo che muore nell’indifferenza. Mostrato un giovane che defeca in lenzuolo e poi getta tutto in aria.

Per la prima volta ci poniamo domande, per la prima volta chi non è mai arrivato a tanto vede quel degrado, e quel degrado è nel regno della regina – e il mondo scopre che anche lì esiste un disagio soprattutto al mondo viene mostrato senza limiti uno dei più grandi tabù del mondo moderno.

Ma questo impatto oggi è improponibile: sono passati 20 anni, sono arrivate altre questioni sul tema, altre opere (migliori e peggiori), altri scandali.

Trainspotting due non poteva avere lo stesso impatto cult.

E non lo ha avuto, è rimasto confinato nella trama di un film non concepito per continuare – il finale di un’opera compiuta, senza interrogativi in sospeso, senza che qualcuno potesse chiedersi cosa sarebbe successo in seguito ai fatti.

Un finale che mostra l’ennesimo disagio: fregare i soldi degli amici e scappare con in sottofondo il segno più tangibile dell’opera: “scegli la vita”, un monologo perfetto, essenziale e che racconta l’aspetto consapevole del disagio – un qualcosa che appartiene perfettamente al finale, una conclusione naturale.

Scegli la vita è quel monologo che completa l’opera caricandola di significato; un significato carico di paradossale delusione e rabbia mista al delirio di quattro ventenni.

Un finale perfetto. I limiti mostrati nel 2017 si denotano sin da subito: il primo capitolo era un’opera compiuta, non pensata per continuare, che ha una naturale conclusione.

Ambientarla vent’anni dopo mostra dei limiti sia in fase continuativa (va bene che il make up fa miracoli, ma così sarebbe stato ridicolo) ma anche, e soprattutto, ha intriso l’opera di banali forzature: racconti di un presente che non si legano al primo film, nessun legame e quindi nessun interesse; senza queste nozioni non sarebbe cambiata la visione del primo film.

Allora perché continuare?

La trama è totalmente scollegata, gli ovvi riferimenti non creano uno stato continuativo, nulla da ricordare.

Una buona regia non può salvare il film: nel primo capitolo la fotografia di Tufano era in perfetta armonia col racconta, un gioco di luci e ombre che riflettevano gli stati d’animo durante le overdosi. La fotografia ha giocato un ruolo fondamentale nel primo capitolo: ci immergeva ancor di più in quel mondo inesplorato nel paradossale gioco di far luce sulle ombre.

Nella seconda parte, invece, nulla di questo avviene: parlando del passato viene meno la prima regola narrativa: fare e non dire. Del resto non potevano fare diversamente dopo 20 anni. Ma soprattutto il monologo “scegli la vita” messo gioco-forza all’interno del film, totalmente scollegato dalla trama, un ovvia apologia che banalizza ancor di più un film che di Trainspotting ha solo il nome.

È un tentativo di dare un senso alla seconda parte dell’opera senza riuscirci, senza dare quel velo di completezza, è solo messo lì a spiegare stancamente il senso della vigoria passata. Un colpo al cuore!

Il secondo capitolo ci dice solo che fine fanno i personaggi, senza dirci nulla del primo film, senza arricchirlo.

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