La delocalizzazione alla luce del Decreto Dignità

La delocalizzazione: quadro d’insieme. La parola delocalizzazione (offshoring, in termini anglosassoni) riecheggia spesso nella vita quotidiana come sinonimo comune di male dell’economia italiana, spesso fomentata in maniera sensazionalistica dalle testate giornalistiche. In particolare, viene di frequente messa in risalto la fuga delle imprese italiane in Paesi dell’Europa centro-orientale e dell’Est come Polonia, Slovacchia, Ucraina e Romania, […]

Luglio 2018
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La delocalizzazione: quadro d'insieme.

La delocalizzazione: quadro d’insieme.

La parola delocalizzazione (offshoring, in termini anglosassoni) riecheggia spesso nella vita quotidiana come sinonimo comune di male dell’economia italiana, spesso fomentata in maniera sensazionalistica dalle testate giornalistiche.

In particolare, viene di frequente messa in risalto la fuga delle imprese italiane in Paesi dell’Europa centro-orientale e dell’Est come Polonia, Slovacchia, Ucraina e Romania, causa attrazione del costo lavorativo minore ed un regime fiscale più morbido rispetto alla controparte italiana.

In generale, il fenomeno è causato dalla presenza nel Paese di destinazione di politiche economiche atte ad attrarre investimenti nazionali ed esteri diretti, ed anche dal miglioramento dell’efficienza del sistema organizzativo e logistico. Un miglior accesso a reti di fornitura completa il parziale elenco dei motivi alla base della scelta di offshoring.

Effetto “inflazionistico” della parola delocalizzazione.

In realtà analizzando i fatturati delle partecipate estere manifatturiere delle imprese italiane, una buona parte di essi deriva da paesi europei occidentali come Francia e Germania e dai paesi nordamericani come Usa e Canada, in un totale mondiale che si aggira intorno ai 2/3.

Di contro, il 20 % del totale deriva in maniera equa dai Paesi citati nelle prime righe e dall’Asia, quest’ultima anche coinvolta nelle critiche.

Da questa breve disamina è possibile dedurre il modesto trend a ricercare un vantaggio di costo nel personale, in favore di strategie di internazionalizzazione volte a render facilmente raggiungibili i mercati di sbocco. Il tutto è poi corroborato da una vacua e non univoca definizione di delocalizzazione.

Infatti, la presenza di varie tipologie di outsourcing, le cessioni di azienda, joint – venture, politiche di acquisizioni e fusioni nonché la continua globalizzazione ed integrazione di mercati geograficamente distanti rende il concetto delocalizzazione molto flessibile e spesso abusato dai più.

Criticità del fenomeno e soluzioni in ottica aziendale.

La delocalizzazione produttiva può esser un’opportunità di crescita ed uno strumento apportante un vantaggio competitivo a tutti gli effetti in mercati emergenti e ad alto potenziale di penetrazione, seppur con opportuni  e necessari  chiarimenti e cautele.

La chiusura di un impianto industriale, od un suo ridimensionamento, comporta in primis il licenziamento o la mobilità dei dipendenti, totalmente o parzialmente. Assume anche un rilevante effetto nella sfera sociale dell’individuo, costretto, a volte in età matura, ad affrontare una gravosa ricerca di un’occupazione alternativa ed a volte sottodimensionata alle proprie qualifiche.

Le fasce di lavoratori colpite più frequentemente dalla disoccupazione nel Paese d’origine  dell’impresa sono quelle addette verso produzioni a basso valore aggiunto e livello di mansione.

Consequenziale risulta l’aumento del divario salariale fra lavoro altamente qualificato e quello di bassa estrazione in tutti i Paesi coinvolti nel processo delocalizzativo, ovvero sia quello d’origine  e sia quello di destinazione.

In seconda battuta, l’indotto generato dall’impresa delocalizzante subisce una battuta d’arresto sia a monte che a valle, con incidenza sulla redditività dei fornitori e nella percezione dei clienti, con conseguente rischio reputazionale e perdita del valore d’avviamento.

Questo perché nel nostro Paese  il marchio “made in Italy” è associato ad una domanda storicamente esigente dal punto di vista qualitativo nel cui senso comune si riverbera la delocalizzazione come elemento negativo, anche a causa del fattore “artigianale” caratterizzante molte tipologie di manifatture.

L’impatto sul capitale umano interno.

Giunti a questo punto, le cautele da adottare da parte delle governance in caso di scelta produttiva delocalizzata dovrebbero riflettere questo triplice fronte: capitale umano interno, fornitori e clientela.

Nel primo caso  è opportuno instaurare politiche di riqualificazione professionale adatte alle esigenze ed alle mansioni acquisite da parte del personale, a parità di condizione salariale ex ante raggiunta.

Può essere inoltre contemplato un ricollocamento sia all’interno dell’azienda stessa, sia all’interno dell’eventuale gruppo d’impresa, sia – e qui può sorgere perplessità – in imprese complementari al settore produttivo d’origine od addirittura in imprese con cui sorge una competitività.

Instaurare una direzione di flessibilità e sicurezza (flexicurity in inglese) è certamente un altro metodo risolutivo, con riprogrammazione del piano di lavoro individuale verso altre sedi geografiche aziendali oppure a livello temporale, senza escludere il missaggio di entrambe e senza eccessive ripercussioni nella sfera privata  del lavoratore.

L’effetto sui fornitori.

Nel caso dei rapporti con i fornitori la valutazione può sembrare filosoficamente più asciutta, ma è importante non sciogliere i contratti di fornitura senza attivamente cercar una soluzione comune di futura collaborazione professionale anche in sede estera.

Questo specialmente in caso di fornitori strategici di prodotti ad alto valore tecnologico e/o di nicchia, naturalmente rispettando i principi di convenienza economica delle operazioni di scambio.

Eventualmente, una ricerca di ricollocazione di fornitura presso altre aziende affini sul territorio d’origine da parte dell’impresa delocalizzante può essere un ulteriore tentativo di render l’operazione nel suo complesso indolore e giovevole per tutti gli attori in gioco.

In quest’ultimi rientrano anche i clienti  per le ragioni esposte in precedenza, nel cui servizio di assistenza sul prodotto finale che ogni impresa – seguendo le indicazione del Porter nella sua famosa catena del valore – deve erogare come attività primaria.

Analisi sulla clientela.

Infatti, a prescindere dalla valutazione tecnico-funzionale da parte della clientela del prodotto, pleonasticamente si ribadisce il rischio di giudizi negativi proprio sul servizio di assistenza post-vendita consequenzialmente ad una scelta delocalizzante.

E’ proprio qui che l’impresa deve agire instaurando un dialogo costruttivo con i clienti stessi seguendo molteplici vie:

  1. continuare a erogare il servizio d’assistenza;
  2. reindirizzarlo verso altre entità;
  3. extrema ratio, interromperlo definitivamente.

Delocalizzazione ed etica d’impresa.

Ciò non toglie l’importanza di decisione etica e responsabile a riguardo del microcosmo impresa circa le scelte di lasciare un territorio, poiché essa è costituita non solo da macchinari e giacenze di magazzino, ma anche – e soprattutto – da capitale umano; Uomini e Donne (aventi, come citato prima, un triplice ruolo) con una vita sociale integrata nel sistema aziendale la quale si ripercuote proporzionalmente nell’essenza privata.

Cosa può fare l’impresa?

Non come “ente” atomisticamente isolato, ma come “Essere” pluralista interagente con l’ambiente circostante: questo è l’azienda, e non si dovrebbe mai dimenticarlo.

Eticità, economicità, strategia aziendale e competitività quindi devono convergere ad un unico obbiettivo del benessere  generale in ottica di responsabilità sociale d’impresa; non solo al conseguimento di un maggior utile d’esercizio.

Le recenti declinazioni degli organi governativi di “punire”, con restrizioni ai fondi di finanziamento e dazi sulle reimportazioni di prodotti provenienti da strutture delocalizzate, dovrebbero anche orientarsi agli obbiettivi summenzionati di riallineamento al cambiamento.

Favorire pratiche di re-industrializzazione e riconversione produttiva verso settori tecnologici innovativi e stimolare la ricerca e sviluppo come business core, sfruttando l’altissima qualità e numero di giovani ricercatori presenti in Italia.

Il decreto Dignità: la lotta alla delocalizzazione del governo Conte.

Il fenomeno delocalizzazione non può prescindere dal recentissimo decreto legge n. 87 del 12 luglio 2018 -Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese-.

In ottica difensiva e sanzionatoria, il provvedimento coinvolge le imprese italiane ed estere operanti nel territorio nazionale e beneficiarie di un aiuto di Stato ai fini di investimenti produttivi, le quali decadono dal beneficio medesimo qualora l’attività economica interessata dallo stesso o una sua parte venga delocalizzata in Stati non appartenenti all’Unione europea, ad eccezione degli Stati aderenti allo Spazio economico europeo, entro cinque anni dalla data di conclusione dell’iniziativa agevolata.

Ad esse viene irrogata una sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma in misura da due a quattro volte l’importo dell’aiuto fruito, ai sensi dell’art. 5 comma 1 del suindicato decreto.

Sugli aiuti geograficamente specifici.

La sola decadenza si applica poi in caso di incentivi di Stato destinati ad investimenti in un sito specifico, ma trasferiti in un’altra unità produttiva situata al di fuori dell’ambito territoriale del predetto sito, in ambito nazionale, dell’Unione europea e degli Stati aderenti allo Spazio economico Europeo, entro cinque anni dalla data di conclusione dell’iniziativa o del completamento dell’investimento agevolato (art 5 comma 2).

La salvaguardia dei livelli occupazionali.

Nel terzo comma dell’art.5 è ribadito inoltre che: “L’importo del beneficio da restituire per effetto della decadenza è, comunque, maggiorato di un tasso di interesse pari al tasso ufficiale di riferimento vigente alla data di erogazione o fruizione dell’aiuto, maggiorato di cinque punti percentuali.”

Analizzando l’art.6 seguente, si evince l’obbiettivo di salvaguardare l’aspetto maggiormente rilevante dei livelli occupazionali: “Qualora una impresa italiana o estera, operante nel territorio nazionale, che beneficia di misure di aiuto di Stato che prevedono la valutazione dell’impatto occupazionale, fuori dei casi riconducibili a giustificato motivo oggettivo, riduca i livelli occupazionali degli addetti all’unità produttiva o all’attività interessata dal beneficio nei cinque anni successivi alla data di completamento dell’investimento, decade dal beneficio in presenza di una riduzione di tali livelli superiore al 10 per cento; la decadenza dal beneficio è disposta in misura proporzionale alla riduzione del livello occupazionale ed e’ comunque totale in caso di riduzione superiore al 50 per cento.”

La definizione giuridica di delocalizzazione.

Dalla disciplina vigente al 14 luglio 2018 sono salvaguardate le agevolazioni concesse o bandite in data anteriore, nonché quelle derivanti dal rispetto dei vincoli dei trattati internazionali e della normativa comunitaria, e gli investimenti agevolati già in corso di avvio.

Il decreto-legge risolve la controversia sulla definizione stessa di delocalizzazione, precisamente nel comma 6 dell’art.5: “Ai fini del presente decreto, per delocalizzazione si intende il trasferimento di attività economica o di una sua parte dal sito produttivo incentivato ad altro sito, da parte della medesima impresa beneficiaria dell’aiuto o di altra impresa con la quale vi sia rapporto di controllo o collegamento ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile.”

Alcune considerazioni sulla definizione.

In prima analisi, sempre in attesa del provvedimento di conversione parlamentare, possibilmente foriero di modifiche, è accolto con parziale favore il trasferimento produttivo negli ambiti comunitari e del SEE, in ossequio delle già menzionate libertà di circolazione.

D’altro canto, la definizione data dal dispositivo normativo può risultare generica e riduttiva in ottica dei molteplici sistemi di produzione esistenti e della Supply Chain Management, e, non da  ultimo, è possibile un forte impatto sulle catene globali del valore.

Nell’auspicio di risultati positivi a breve e lungo termine di questo  provvedimento del governo Conte, il quadro delineatosi può essere ancora migliorato, favorendo la concertazione con gli organi istituzionali Ue ed extra-Ue ad alto potenziale, in vista dei recenti accordi economico-commerciali con Canada e Giappone, ed istituendo un osservatorio nazionale  in grado di quantificare in numeri e lettere il fenomeno in oggetto.

Infatti, citando Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi Cgia, non esistono statistiche complete in grado di delineare con precisione il fenomeno (fonte: il Giornale di Vicenza 25/02/2018), portando spesso a travisare delocalizzazione con internazionalizzazione, quest’ultima strategia di sicuro e comprovato beneficio.

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