Il “Fallito” nel corso dei secoli: breve analisi

IL “FALLITO“ dal Medioevo all’Inghilterra del Settecento. Il diritto del fallimento per l’imprenditore, dal punto di vista storico-culturale, subirà profondissimi cambiamenti. Infatti, recentemente è stato approvato il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), in attuazione della Legge-delega 19 ottobre 2017 n. 155. Il nuovo Codice innanzitutto sostituirà proprio il termine “ fallimento” con […]

Gennaio 2019
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IL "FALLITO“ dal Medioevo all’Inghilterra del Settecento.

IL “FALLITO“ dal Medioevo all’Inghilterra del Settecento.

Il diritto del fallimento per l’imprenditore, dal punto di vista storico-culturale, subirà profondissimi cambiamenti. Infatti, recentemente è stato approvato il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), in attuazione della Legge-delega 19 ottobre 2017 n. 155.

Il nuovo Codice innanzitutto sostituirà proprio il termine “ fallimento” con l’espressione “liquidazione giudiziale”. Il c.d. “fallito” inoltre, d’ora in avanti sarà denominato “debitore assoggettato a liquidazione giudiziale”.

Per comprendere al meglio le caratteristiche di questa riforma, è opportuno delineare un percorso temporale, per analizzare la portata sociale del fallimento.

Le origini del diritto fallimentare.

Le origini del diritto fallimentare sono ricondotte, dalla maggior parte degli studiosi, nel periodo medioevale.

Essi attribuiscono le cause di ciò alle “esigenze poste da un’epoca di grande risveglio economico e commerciale” (Santarelli, 1964).

Il diritto fallimentare nasceva, a livello logico, come disciplina spesso applicata quasi esclusivamente ai mercanti, salvo delle poche eccezioni.

I “consumatori“ dunque ne erano tendenzialmente esclusi, ma dipendeva in larga parte da legislazione a legislazione. Resta il fatto che esistevano, nel Medioevo, delle regolamentazioni che consentivano il fallimento anche di una persona che non svolgeva attività di commercio.

Il ruolo del diritto romano.

In aggiunta, rimane comunque difficile il problema di un’ulteriore anticipazione di alcuni istituti giuridici fin dal diritto romano. Ancora, è da valutare l’impatto – incerto – di quest’ultimo sugli istituti analoghi medioevali.

Su questo punto è utile riferire le parole del Santarelli (1964): “è provato, per esempio, che il mondo romano, sotto la spinta di vaste e complesse esigenze di commercio e di credito, come tali non del tutto diverse da quelle del basso Medioevo, elaborò istituti destinati a regolare il concorso dei creditori di un soggetto insolvente, i quali presentano più d’una somiglianza con quelli regolati dai nostri statuti.”

Lo stesso autore conclude successivamente per una collocazione di una vera nascita del fallimento proprio nell’età intermedia: “Questo istituto tipicamente medievale che affonda le radici nell’humus vivo del suo tempo, dal quale trae la sua fisionomia inconfondibile”.

Dello stesso orientamento anche il Rocco (1962): “Con l’aprirsi dell’epoca comunale s’inizia quella profonda trasformazione legale dell’insolvenza, che doveva in pochi secoli condurre alla formazione dell’istituto giuridico del fallimento, quale, nelle sue linee fondamentali, è tuttora accolto nelle legislazioni vigenti”.

Il Medioevo.

Le leggi medioevali sul fallimento, o meglio, sulle procedure concorsuali, erano differenti da città a città, e spesso disorganiche e scarne. La figura imprenditoriale assumeva le vesti del mercante, classe sociale che godeva di un notevole prestigio:

  • Prestigio causato dallo sviluppo del commercio internazionale e degli scambi.

Di contro, i mercanti erano assoggettati a regole molto rigorose e severe. Ciò si rifletteva in un approccio all’insolvenza particolarmente punitivo per il debitore, senza la considerazione di eventuali azioni di discolpa.

Molto esplicita è la frase di Baldo degli Ubaldi: “si fallitus, ergo fraudator”.

Continuando, le conseguenze per l’insolvente erano gravissime sul piano personale e patrimoniale:

  • si prevedevano pene come la tortura, la reclusione e la condanna a morte.

Nonostante si tenesse conto del modello di comportamento del fallito, era inevitabile per lui il macchiarsi d’infamia, e spesso gli effetti raggiungevano anche i familiari. Proprio il vincolo familiare era la radice di questa condotta intransigente.

Infatti, il fallito caduto in dissesto era considerato come colui che spezzava la tradizionale ereditarietà dell’attività commerciale di famiglia. In aggiunta, proprio questa concezione della trasmissione del mestiere di padre in figlio era uno dei pilastri per la concessione del credito.

Questo contesto spesso portava alla fuga del debitore, diventando “fugitivus“. Una partenza precipitosa era anche presa come un segnale anticipatore della rovina finanziaria del soggetto.

La Repubblica di Venezia.

Nella Venezia di fine Trecento, il giudizio si differenziava. Il fallito aveva il diritto di dimostrare che il suo crollo finanziario non era un effetto di reati.

Oltre che a comportamenti fraudolenti ,quindi, anche la sfortuna, che poteva colpire chiunque, era elevata a causa di un fallimento. Il rischio dunque, d’impresa e d’insolvenza, era valutato come un fattore ineliminabile nei traffici commerciali.

Anche le dinamiche del credito veneziano hanno favorito quest’atteggiamento. Infatti, essendo particolarmente elevato il costo del denaro e scarso, non era conveniente per i creditori affossare il debitore. Si favorivano invece una serie di accordi collaborativi con quest’ultimo.

Come sottolineava il Ferro (1778-81): “Alle nostre leggi [è] ignoto quel rigore inumano delle leggi barbare, che abbandonavano interamente il debitore in balia dei creditori”.

Il tutto garantito dalla magistratura dei tre Sopra-consoli, eletta dal Maggior Consiglio ed esistente fin dal Duecento. Lo stesso autore, sottolineava la distinzione in “tre sorta di falliti”:

  1. quelli falliti per necessità (disgrazia, come incendio o naufragio, ma anche imperizia senza mala fede);
  2. quelli falliti per malizia, [..]”;
  3. i falliti “[sia] per necessità [..] [sia] e per malizia”.

Questa propensione alla clemenza ed al soccorso del fallito rendeva agevole l’imprenditorialità e ne riduceva il “rischio di fuga”. Non a caso, era possibile accedere a – e/o mantenere, per un nobile dissestato – cariche pubbliche per conservare il proprio tenore di vita.

Il modus operandi veneziano quindi si prolungò nel tempo, come ben dimostra anche una commedia dei primi del Settecento di Carlo Goldoni , “La bancarotta”.

In essa, “La bancarotta rappresenta un momento di rottura, ma anche di rinnovamento nella gestione dell’attività commerciale” (Cabras, 2007).

Inoltre, si potrebbe citare, per lo stesso motivo, la nota opera di fine Cinquecento “il Mercante di Venezia”, di William Shakespeare. Concludendo, rispetto alle realtà mostrate nel paragrafo precedente, si può constatare un approccio più moderno al problema dell’insolvenza.

L’evoluzione del diritto fallimentare in Europa.

Le leggi delle varie città italiane ispirarono successivamente quelle adottate in gran parte degli ordinamenti europei. Questo fenomeno è spiegato pregevolmente dal Galgano (2001), e riguarda tutta la materia del diritto commerciale.

Varie città importanti, come Firenze, Genova, Milano e Venezia, trattavano ingenti capitali commerciali capaci di controllare i mercati e di imporre una supremazia economica. Con il contributo fondamentale dei mercanti italiani, queste realtà influivano notevolmente nel tessuto europeo.

Di converso diffondevano la relativa legislazione d’origine. Nei poli fieristici quindi, lo ius mercatorum di stampo italiano era quello utilizzato per lo più dai magistrati preposti.

La Francia.

Proseguendo, nel 1637 in Francia si emanò l’Ordonnance de Commerce. Nel Titolo XI di essa, “Des faillites et banqueroute”, si disciplinava la materia in oggetto di trattazione. Formato da 13 articoli, offriva una visione del fallito come soggetto passivo, dipendente dalle scelte dell’assemblea dei creditori.

Quest’ultima deliberava, per mezzo della maggioranza, con provvedimenti valevoli per tutti i soggetti. La figura del giudice era relegata ad entità di omologazione delle decisioni della maggioranza.

Altro aspetto importante è la distinzione fra fallito e bancarottiere. Quest’ultimo veniva definito come colui che metteva in atto comportamenti illusori, ovvero distrazione di beni, manipolazione di scritture contabili e di importi creditizi.

L’Inghilterra.

In Inghilterra invece, con straordinaria similitudine con Venezia, nel 1705 fu istituito lo Statute of Anne. Le due realtà politiche avevano in comune la forte vocazione marittima dei loro traffici commerciali, seppur in due differenti periodi storici.

Inoltre, era comune ad entrambe anche il carattere innovatore delle loro leggi fallimentari. Infatti, come visto, Venezia introdusse un’ampia disciplina di composizione concordata dei debiti. Mentre nella fattispecie inglese venne introdotto, solo per i mercanti, l’istituto del discharge.

Quest’ultimo può essere assimilato alla moderna esdebitazione, e consentiva al fallito la liberazione da tutti i debiti. Previa collaborazione con i c.d. commissioners, il fallito che dava piena disponibilità dei suoi beni poteva reinserirsi nella comunità e nel ciclo economico.

Dunque, senza aver più necessità di scappare e con una rinnovata dignità morale. Questa posizione inglese, di converso, sempre con il già citato Statute of Anne, introdusse pene più severe per i falliti fraudolenti.

Un meccanismo definito dallo studioso C. J. Cabb (1991) di “carota e bastone”, quest’ultimo rappresentato dalla pena di morte. L’impostazione anglosassone fu poi importata nel sistema giuridico statunitense.

Bibliografia.

La genesi e la logica della Legge Fallimentare del 1942, M.Fioravanti – L. Stanghellini, saggio raccolto in La cultura negli anni ’30, a cura di G. Morbidelli, Passigli Editori, 2014.

Ragioni storiche e perduranti dubbi circa la fondatezza di alcuni casi di esclusione da fallimento e concordato preventivo. Leonardo Giani. IANUS n. 9-2013.

Leggi anche: La legge fallimentare ed il fallito: breve disamina

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