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Rohingya: storia di un massacro dei giorni nostri

Rohingya

Storie inenarrabili: i Rohingya.

La storia dell’umanità ha consegnato ai posteri storie inenarrabili, per l’efferatezza e la violenza che le ha contraddistinte. Storie, queste ultime, confinate nel passato, trattate con distacco e tardiva compassione dagli statisti, sempre reattivi e guizzanti (a posteriori) nel prendere le distanze dalle disumane tragedie cui non poche popolazioni sono state sottoposte.

Si potrebbe così rimandare la memoria alle più conclamate persecuzioni.

Quella del regime nazista verso il popolo ebraico, sino ai meno “pubblicizzati” genocidi e crimini di guerra commessi a spasso nel mondo. Ci riesce difficile pensare che, nel 2018, situazioni simili possano essere ancora in atto, nell’indifferenza della politica internazionale e delle grandi potenze, troppo occupati ad imporre dazi o a predisporre il terreno per una seconda guerra fredda.

Succede che in Myanmar, nella ex Birmania, un popolo, una minoranza, subisca una persecuzione ininterrotta da decenni, perpetrata negli ultimi anni anche da una personalità insignita del premio nobel per la pace.

L’incredibile realtà che vi raccontiamo è quella dei Rohingya, minoranza musulmana giunta in Birmania per la prima volta nel VII secolo, nelle zone paludose al nord del Paese, incrementatasi nel XVII secolo in seguito al colonialismo britannico e da sempre ai margini della vita politica e sociale dello Stato del sud-est asiatico.

Pur rappresentando il 25% della popolazione birmana mai nessun governo ha concesso loro il diritto di voto, arrogandosi un ipotetico Ius praelationis su un Paese che faceva fatica, di per sé, a riconoscere le libertà democratiche. Allo stesso tempo il Bangladesh, terra d’origine dei Rohingya, negava loro, a sua volta, il diritto di cittadinanza a distanza di oltre mille anni dalla prima migrazione.

Nel 1948 la Birmania ottenne l’indipendenza dall’impero britannico.

Solo nel 1982, dopo oltre trentanni di indifferenza totale, negò ufficialmente ai Rohingya lo status di cittadini legittimi, mostrandosi un paese miope alle più basilari norme democratiche ed umanitarie

Fra i diritti negati a questo popolo quello di associarsi liberamente, di possedere delle proprietà terriere, di spostarsi o di avere un’identità riconosciuta da un documento.

Una violenza inaudita: divieto di libero accesso alle cure mediche e all’istruzione.

I Rohingya sono ostaggi immobili di una vessazione secolare, sfociata talvolta in sporadici atti di ribellione, frutto anche di una educazione quasi esclusivamente religiosa, ancorata ai principi più radicali, quanto mai distanti dagli apparati civili.

La violenza fomentata, che ribolliva da secoli, si è esplicata attraverso le varie forme dell’annullamento del presunto nemico; che abbia riguardato un adulto, un anziano o un bambino, nessuno è stato risparmiato dalle più disparate violenze:

dalla messa a fuoco di interi villaggi, alle esecuzioni sommarie; dalle torture, alla sparizione dei prigionieri; dagli stupri di massa alla spinta verso un esodo forzato che troppe volte si è risolto nell’eccidio di un naufragio.

Negli ultimi anni, i numeri di questo fenomeno degradante si sono fatti sempre più nebulosi, in seguito alla negazione da parte del governo birmano dell’ingresso di osservatori internazionali ed associazioni umanitarie in loco.

Le uniche testimonianze sono quelle degli esuli, sopravvissuti all’eccidio e riusciti a fuggire nel vicino quanto problematico Bangladesh.

Il governo birmano, nella persona del ministro degli esteri Aung San Suu Kyi, insignita nel 1991 del Nobel per la pace, ha respinto ogni accusa e sospetto di violazione dei diritti umani, riferendo alla platea internazionale che la realtà locale è unicamente quella della repressione controllata e mirata di episodi di insurrezione.

La crisi migratoria.

Il 25 agosto 2017 inizia la crisi migratoria dei Rohingya verso il Bangladesh attraverso il fiume Naf che separa la Birmania dal Bangladesh. Ad oggi le stime ufficiali dell’UNHCR (Il Comitato delle Nazioni Unite per la tutela dei diritti umani) parlano di quasi un milione di sfollati, detenuti in enormi campi profughi.

Il Bangladesh non ha però firmato la Convenzione delle Nazioni Unite sui Rifugiati (Convenzione di Ginevra) e, anche qualora la sottoscrivesse, un eventuale rientro in Myanmar risulterebbe impossibile in condizioni di sicurezza alla luce dei gravi problemi politici del Paese. I Rohingya costituiscono, ad oggi, la più grande comunità apolide del pianeta.

Non godono della protezione di alcuno Stato, con annessa negazione di qualsivoglia diritto e forma di tutela.

In conformità con il Rakhine State Action Plan, varato nel 2014 dal governo del Myanmar, questi apolidi, al fine di ottenere la cittadinanza per naturalizzazione, dovrebbero dimostrare di aver vissuto continuativamente in territorio birmano per almeno 60 anni; in questo senso, la assoluta indisponibilità di documenti ufficiali rende tale dimostrazione praticamente impossibile.

Il governo birmano non riconosce inoltre la cittadinanza ai bambini nati fuori dai confini birmani da genitori birmani che hanno lasciato il Paese illegalmente o che sono fuggiti da persecuzioni.

Nemmeno l’accorato appello di Papa Francesco, nello scorso dicembre, ha mosso le coscienze delle grandi “potenze” mondiali, incuranti di un massacro autorizzato, di una deportazione aberrante, portata avanti con la complicità di un premio Nobel per la pace, marchiata nella storia come simbolo di giustizia ed equità.

Leggi anche: Aung San Suu Kyi, donna speranza del Myanmar

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Luigi Risucci

Public Servant, Editor, Lawyer

Luigi nasce a Matera nel 1990. Dopo la maturità classica, si laurea in Giurisprudenza nel 2015. La passione per la legge lo porta alla Specializzazione in Diritto Internazionale e Umanitario conseguita, col massimo dei voti, nel 2017 ed al titolo di Avvocato brillantemente conquistato nel 2018. Tra università e master vince otto borse di studio in altrettanti anni. Editorialista presso una testata giornalistica sportiva nazionale dal 2014, è arbitro di calcio presso la Sezione di Nichelino (TO). Dal 2019 vive a Torino, dove lavora come Funzionario dello Stato. Ama in maniera viscerale lo sport, i viaggi, la buona cucina ed il contatto con la natura.

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