Intervista a Michele Ainis: Giudice Costituzionalista

 Michele Ainis. Benvenuto Giudice Ainis, grazie per aver accettato la mia intervista. È un autentico piacere per me. Giudice, lei è di Messina, la città sorta sull’antica Zancle nell’innesto culturale di popoli e civiltà dal Medio Oriente all’Occidente. In Sicilia l’eredità artistica è d’immensa caratura. Ma, oltre all’indubbia bellezza, è anche una terra al centro […]

Febbraio 2019
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Michele Ainis: Giudice Costituzionalista

 Michele Ainis.

Benvenuto Giudice Ainis, grazie per aver accettato la mia intervista. È un autentico piacere per me. Giudice, lei è di Messina, la città sorta sull’antica Zancle nell’innesto culturale di popoli e civiltà dal Medio Oriente all’Occidente. In Sicilia l’eredità artistica è d’immensa caratura. Ma, oltre all’indubbia bellezza, è anche una terra al centro di drammatici eventi.

Quanto è stato importante, per le sue scelte di vita, crescere in un luogo dove s’incontrano più culture antropologiche ma, consapevole delle afflizioni sociali e politiche presenti nel territorio?

Direi che la mia città è stata importante da quando sono andato via, quando c’ero la vivevo un po’ come una prigione. Peraltro Messina non offre grandi stimoli culturali perché è una città senza memoria, nel senso che la sua memoria storica è stata azzerata da una serie devastante di terremoti.

L’ultimo, nel 1908, fu il più tragico nella storia europea, quello che ha fatto più morti: 80.000 solo nella città di Messina, 140.000 in tutta l’area dello Stretto. Dopo di che i bombardamenti alleati, durante la seconda guerra mondiale, hanno completato l’opera.

Quindi è un territorio che non è punteggiato da opere risalenti, in cui le persone non possono riflettersi nelle tracce del proprio passato e quindi non lo conoscono. E siccome non c’è cultura senza memoria, questo determina se non un vuoto una certa assenza di stimoli culturali, nonostante l’università e altre iniziative che pure esistono.

Nella fioritura artistica di Messina è germinata la pittura di molti nomi illustri: G. Alibrandi, A. De Saliba, A. Barbalonga Ricci, A. Giovanni degli Antoni (detto Antonello da Messina). Della sua giovinezza  molti saranno i ricordi.

Ve n’è uno fra questi legato all’arte?

A quel tempo, in realtà, ero poco o nulla interessato alle arti figurative. Ero invece totalmente immerso nella letteratura, che ho divorato da quando avevo l’età di dodici, tredici anni, passando estati intere a leggere gli americani, e poi i russi, i francesi e via via…

Ho appreso a quel tempo una lezione che devo soprattutto a Hemingway: e cioè che per scrivere bene devi depurare le tue frasi, togliere aggettivi o nomi o giri di parole, devi insomma prosciugare il testo, per far brillare la perla che si nasconde nel suo fondo. L’arte è sottrazione di peso.

Giudice Ainis, da qualche anno lei scrive anche testi critici di Arte Contemporanea ed è un valore aggiunto alla sua già ampia cultura. Quando nasce il suo interesse per l’arte? E l’incipit si è presentato nella fascinosa veste di musa ispiratrice oppure rientra nel desiderio di avvicinarsi ad essa e tradurre, senza intermediari, le sue emozioni?  

È un interesse recente, o più che un interesse una passione, quella rispetto alle arti figurative. Un’occasione scatenante certamente è stata la Biennale del 2013, quando Vittorio Sgarbi chiese a me e a molti altri intellettuali di indicare un’artista, un’opera.

Ecco, quella mi è sembrata un’operazione molto condivisibile, e anche molto generosa da parte di Vittorio, che si è spogliato dei suoi poteri di curatore e perciò del potere di selezione degli artisti da esporre alla Biennale, devolvendolo verso una platea di persone di cultura, sul presupposto che l’arte non appartiene ai critici d’arte, non appartiene ai galleristi, tutto sommato non appartiene nemmeno agli artisti, perché un artista quando ha deposto il proprio uovo non è più suo, se ne libera, e l’uovo appartiene al mondo.

Questa mi è sembrata (e l’avevo scritto in un paginone sul Corriere della Sera a quel tempo) una rivoluzione costituzionale, che in qualche modo tornava all’origine della garanzia costituzionale della libertà dell’arte, garanzia che per la prima volta si manifesta negli anni della Rivoluzione francese e che ha come proiezione concreta il conferimento a tutti gli artisti, nel 1791, del diritto di esporre nel Salon, cancellando la giurisdizione dell’Accademia di belle arti.

La tutela del patrimonio artistico trova edificanti esempi nel nostro Paese, molti dei quali provengono da privati e da fondazioni. A Roma ad es. La Maison Fendi ha sovvenzionato il restauro della “Fontana di Trevi” (2014) e il gruppo Tod’s di Diego Della Valle ha finanziato il restauro esterno dell’Anfiteatro Flavio (inaugurato a luglio 2016).

Lei cosa ne pensa riguardo alla possibilità di privatizzare i luoghi dell’arte?

Penso che sia un’opportunità che noi non riusciamo ancora a sfruttare a pieno, perché magari non sarà vero che in Italia c’è il trenta o il quaranta per cento del patrimonio artistico mondiale, però ce n’è una parte importante, sia dal punto di vista archeologico sia per tutto quello che il Rinascimento ci ha lasciato.

Noi non riusciamo abbastanza a farlo diventare anche un veicolo economico, un’attrazione turistica, a causa delle storiche inefficienze dello Stato italiano e anche per l’eccessivo timore rispetto all’azione dei privati.

Certo, la fruizione collettiva dei beni culturali incontra dei paletti precisi: e così, per esempio, se a Venezia faccio entrare i transatlantici o milioni di turisti al giorno che ne consumano le pavimentazione, allora metto a rischio la sopravvivenza stessa di Venezia. Ma in generale sarei favorevole all’apporto dei privati e penso che sia anche utile una competizione fra un polo pubblico e privato.

Anche Christo ci ha fatto camminare sull’acqua! Ricorderà “The Floating Piers” la splendida Installazione sul Lago d’Iseo di Christo Vladimirov Yavachev.

L’artista internazionale maggiore esponente della Land Art con la sua installazione/evento (giugno 2016) ci ha lasciati tutti senza parole; e il luogo, con la sua bellezza paesaggistica e artistica, ha accolto il ponte galleggiante di seta gialla perfettamente interagente. Tutto ha funzionato a meraviglia, eppure ci sono stati gli scettici.

A lei è piaciuta?

Francamente c’è il rischio che si tratti di trovate, non di operazioni che abbiamo dietro un’idea potente. Più in generale, in queste installazioni il pericolo è che l’idea, la “trovata” sia preminente rispetto alle ragioni intrinseche dell’opera, magari perché quelle ragioni ci sono poco, perché insomma sull’arte prevale lo spettacolo.

Però in questo caso io penso che si sia trattato di un’operazione felice, perché che cosa ti cambia rispetto a quel paesaggio lì senza l’installazione? Ti cambia un punto di vista diverso cui l’artista ti costringe, cioè le stesse cose velandole con una seta gialla o disponendoci attorno una struttura, magari leggera, acquistano una dimensione inedita, ti trasmettono significati altri e questo che cosa crea? Un effetto di meraviglia.

Diceva Aristotele che la filosofia nasce dalla meraviglia, e la meraviglia ti rivela la possibilità di uno sguardo diverso sulle cose che ti circondano.

La mia personale ricerca di critico d’arte si concentra spesso verso quelle opere in cui prevale la raffinata sensibilità, per cui forma e colore, seppur nella informale o astratta elaborazione, s’insinuano nella finezza introspettiva e spirituale dell’arte; restituendo un gusto estetico-filosofico evocativo che non trascuri la primigenia vena intuitivo/istintuale.

A lei cosa l’attrae in particolare di un’opera d’arte?

Da parte mia credo che l’arte sia forma, o meglio una forma formante, una forma che ricrea le cose. Quando guardo un dipinto o leggo un romanzo non m’importa dell’intenzione che aveva animato il lavoro dell’artista, m’importa della felicità estetica con cui ha saputo realizzarla. Nell’arte conta il “come”, non il “cosa”. O meglio: la cosa risiede nel come, nel modo con cui l’artista riesce a esprimersi.

E c’è un piacere estetico, oltre che il piacere che può donarci il sesso o la cucina o il viaggio. Dopotutto, è per questa capacità di suscitare emozioni che l’arte è stata condannata da Platone in poi. Quel rigetto dell’arte era in qualche modo un rifiuto nei confronti del piacere.

Non a caso ricompare nel pensiero di grandi puritani, quali Sant’Agostino, Pascal, Kant, Tolstoj: ciò che essi deprecavano non era il fatto artistico in sé, ma piuttosto la teoria edonistica dell’arte, il sospetto che l’arte possa contribuire a degradare gli uomini, anziché elevarne lo spirito. Ecco, io la penso all’opposto, tutto qui.

L’attuale situazione espositiva a Roma, come nelle altre città italiane ed europee, è affidata a galleristi e a critici d’arte sostenuti dagli sponsor. Nella nostra città, famosa per l’arte, ad oggi non esiste uno spazio espositivo per soli giovani. Intendo uno spazio “non convenzionale” e “scevro da ingerenze opportuniste e politiche” insomma “libero”. Eppure esistono strutture in disuso spesso ritrovo di bande locali e stili di vita disgraziati.

Perché non “ripulire” questi spazi e riqualificarli con ambienti accoglienti per i ragazzi che vogliono fare “Arte”?

Ottima idea. E siccome l’idea è buona, non verrà mai realizzata: in Italia succede sempre. Ma è un delitto, specialmente se a farne le spese sono i giovani. La questione dei giovani è la più grave emergenza nazionale, eppure se ne parla poco. Ma se i nostri figli migliori, quelli con una laurea eccellente e magari un dottorato, sono costretti a emigrare all’estero per trovare lavoro, significa che siamo un Paese fallito, senza futuro.

Significa che abbiamo sprecato energie e quattrini per istruirli, quando le loro competenze verranno spese altrove, a vantaggio di altre nazioni. E significa infine che nella nostra società non c’è giustizia, né fiducia sul domani. Come peraltro mostrano anche i dati sulla mobilità sociale, che in Italia resta piatta.

Così, la mobilità intergenerazionale misura la probabilità di schiodarsi dalla classe di reddito dei propri genitori, e tale probabilità è tre volte più bassa rispetto agli Stati Uniti. Difatti 7 operai su 10 sono figli di operai, mentre per un impiegato la possibilità di diventare dirigente è del 21%,contro il 40% della Svezia.

E allora, se i giovani italiani vivono una condizione marginale, perché mai dovrebbero restarne indenni i giovani artisti?

Giudice Ainis, lei ha scritto molti saggi e diversi libri, “La Costituzione e la Bellezza” è il libro scritto con Vittorio Sgarbi in cui l’Arte incontra la Costituzione della Repubblica Italiana. Il dialogo e il rispetto però fra i due mondi non è sempre possibile e spesso resta solo un’idea poetica affidata alle pagine di un libro. Cosa fare per richiamare tutti ad una maggiore consapevolezza nell’intento di salvare ciò che di bello ancora conserviamo nel nostro Stato.

L’esperienza di questo libro è stata davvero felice. Lo abbiamo pubblicato nel maggio 2016, per settimane si è trovato in testa nelle classifiche di vendita, ci hanno chiesto di raccontarlo in tante trasmissioni televisive, da Fazio alla Gruber, e dopo quasi tre anni continuiamo a ricevere attestati d’interesse, inviti, in ultimo anche il premio Croce per la saggistica, che ci è stato consegnato a Pescasseroli da Dacia Maraini, il 5 agosto 2017.

Un premio che mi ha fatto particolarmente piacere perché la scelta è stata operata dai ragazzi di 12 Licei abruzzesi, che lo hanno letto e commentato.

Ecco, se quel libro ha avvicinato qualche italiano in più, giovane e meno giovane, alla Costituzione e all’arte, significa che non si tratta di un’impresa impossibile: basta trovare un linguaggio accessibile, diretto, senza i tecnicismi degli addetti ai lavori, che in genere si parlano addosso l’uno con l’altro, senza raggiungere davvero gli italiani.

Ma su questo con Vittorio siamo assolutamente consonanti: l’arte non appartiene ai critici d’arte, così come la Costituzione non è proprietà dei costituzionalisti.

La crescita intellettuale passa anche dalla scuola che riflette sempre sintomi e malesseri di una società. Aumentare le ore di studio della Storia dell’Arte e inserire la disciplina già dalla Scuola Primaria dovrebbe essere un argomento su cui riflettere con lungimiranza. Le promesse dei governi che si sono avvicendati negli ultimi decenni sono state completamente disattese e affidare la questione al MIUR ha affossato definitivamente la specificità disciplinare.

Vale per la Storia dell’arte ciò che vale per l’Educazione civica. Qualche anno fa un ministro dei governi Berlusconi, Giulio Tremonti, disse che “la cultura non si mangia”. Lo disse da ministro dell’Economia, senza rendersi conto di quanto l’economia italiana dipenda viceversa dalla nostra produzione culturale, antica e presente.

Insomma, la cultura si mangia, dà da mangiare; però spesso si ha l’impressione che alle nostre istituzioni manchino i denti. Ciò chiama in causa il ruolo dello Stato nei confronti dell’arte. Diceva Adorno che l’intervento pubblico in questo campo rischia d’uccidere la spontaneità dell’attività artistica, perché ogni intervento implica una scelta fra artisti e fra correnti artistiche, con il rischio di forgiare un’arte di Stato, pianificata e regolata.

Quanto a me, sono d’accordo solo in parte. Io credo piuttosto che il compito dei poteri pubblici sia di “liberare” l’arte dai molteplici condizionamenti che le provengono dal mercato, insomma di renderla davvero libera, offrendo sostegno alle energie artistiche più deboli, che spesso sono anche le più innovative e originali. Come la creatività dei giovani, di cui abbiamo già parlato.

Il poeta e drammaturgo siciliano Luigi Pirandello, Nobel per la Letteratura, con le sue opere che riflettono il paradosso e il concetto filosofico di assurdità dell’esistenza, ai giorni nostri sarebbe un’entità smarrita; fagocitata dalla malvagità degli eventi. Il debordare di aggressività e violenza sta diventando una sanguinante piaga.

Anche per noi donne sono tempi infausti. Come possiamo difenderci se le istituzioni non ci aiutano?

Per difendersi dalle prepotenze, bisogna innanzitutto conoscere i propri diritti. E siccome la Costituzione è la Carta dei diritti, sarebbe utile studiarla fin dai primi cicli scolastici. Viceversa in Italia c’è molta ignoranza, sia sui diritti, sia sulla Costituzione.

Questa è una lacuna che spetterebbe alla scuola colmare, invece una delle tante riforme scolastiche ha sostituito la vecchia Educazione civica introdotta nel 1958 da Aldo Moro con Educazione alla cittadinanza, mi pare che si chiami così.

Avrebbe dovuto offrire corsi più approfonditi sulle nostre istituzioni, sui nostri diritti e doveri, invece è successo il contrario. Un paradosso pirandelliano, se si vuole: genere letterario molto frequentato dai politici italiani.

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