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Città globali: tra inclusione ed esclusione

Città globali

Città Globali.

Si tratta di liquidità. Tutto scorre, niente è fisso e non ci sono radici a cui potersi aggrappare. La città moderna globale è diventata il centro propulsore di ansie e paure, luogo di esclusione ed emarginazione imperante, dove storie di quotidiano “imbarazzo della diversità” testimoniano inquietudini represse e al contempo manifeste.

Essa appare promotrice di individualità e socialità che si alternano in fasi positive e morbide, a favore dell’integrazione ed assimilazione del “diverso”, ed altre più negative e rigide, in un’anomia dondolante del vivere globalizzato.

Stay Human: inclusione versus esclusione.

Città globali in bilico, tra paura e fiducia, tra false aspettative e nuove speranze. Inclusione contro esclusione, laddove la cosiddetta “puzza” del diverso, la paura dell’africano “di colore” (nell’immaginario collettivo capace di qualsiasi primitiva ed illecita violenza), distruggono la cultura della condivisione.

Anche una buona fetta di giornalismo di cronaca acuisce certi pregiudizi e la presunta criminalità, insita nella “cultura bassa del selvaggio immigrato” (incivile e sporco, da rimpatriare per difendere e preservare il cittadino occidentale).

Quella fetta si sta allargando vertiginosamente, favorita da esasperati proclami di stampo politico, generando titoli da prima pagina che disegnano un volto del tutto inedito del bel Paese sospeso tra la sua innata vocazione all’accoglienza e quei piccoli e/o grandi episodi di cronaca quotidiana testimoni manifesti di rabbia, egoismo e intransigenza, che parlano ad alta voce di individualità e violenza, rievocando un passato storico che ancora ci sgomenta.

Social Media e dis-integrazione.

Si radica nelle menti più fragili e prive di strumenti conoscitivi una pericolosa intolleranza, che nell’era della globalizzazione e dei social media accorcia distanze distruggendo immaginarie barriere protettive.

Il cittadino per difendersi dall’intruso molesto eleva alte barriere culturali, sociali, materiali, manifestando una sorta di imbarazzante razzismo un tempo velato e mai completamente manifesto.

La constatazione di questo rifiuto verso l’umanità e di una certa violenza, insita nelle parole e nei gesti, rende esanimi e privi di reazione, sgomenta e disarma.

Indagare a fondo il pregiudizio porgendosi degli interrogativi per pensare un’alternativa culturale potrebbe essere una bella risposta. Trovando gli strumenti socio-culturali giusti per far prevalere la vocazione naturale alla “relazione con l’altro”. La condivisione fa la forza!

Su questa scia nascono laboratori interculturali ad ampio raggio, in cui, cucina, arte e cultura di paesi lontanissimi si mescolano, generando luoghi di integrazione, condivisione ed incontro.

Numerosissime realtà italiane hanno sperimentato negli ultimi mesi laboratori interculturali di cucina, arte, musica, riqualificazione urbana e non… in cui migranti imparavano l’italiano sperimentando le ricette tipiche dei luoghi d’accoglienza (territori soprattutto del centro-sud Italia), offrendo agli ospitanti opere d’arte inedite e ricette tipiche dei loro Paesi d’origine.

Molte altre hanno organizzato attività di riqualificazione di litorali inquinati, di centri storici imbrattati e deturpati, cooperando insieme per ripulire i luoghi più belli dal degrado imperante, riportando alla luce il “bello”, incoraggiando sempre il piacere della conoscenza dell’umanità nella sua interezza, favorendo la scoperta di realtà socio-culturali differenti, di sapori nuovi, di gastronomie diverse, da scoprire e da incontrare o, assecondando i propri gusti, dalle quali prendere una più consapevole distanza.

Tutto questo entusiasma e spaventa, ma diventa necessario andare oltre certi limiti che ingabbiano, cercando di costruire qualcosa invece di distruggere, creando luoghi di condivisione in cui ognuno può provare ad esprimersi e ‘sperimentarsi’, tessendo reti sociali dinamiche ed ‘innov-attive’.

Tra fiducia e paura.

Secondo Zygmunt Bauman (Fiducia e paura della città, 2005) moltiplicando gli spazi di condivisione, gli spazi pubblici e sociali, si può coltivare una condivisione già in atto da tempo. Tuttavia è questa una coesistenza scomoda, piena di frastuono e di collera.

La radicata xenofobia ci è entrata dentro e sembra davvero difficile riconoscerla e smascherarla alla nostra coscienza, perché l’abbiamo assimilata così bene da non coglierne più l’essenza.

La realtà “dolcemente razzista” impregnata da sempre di cultura del sospetto e paura dello straniero riesce a vincere ogni tentativo di apertura e condivisione, negli insospettabili contesti dove ogni giorno si consuma la più imbarazzante e violenta discriminazione.

Sono contesti neutrali, incontri per strada, a scuola, in spiaggia, pettegolezzi dal parrucchiere, episodi apparentemente innocui ma portatrici di un “sano malessere culturale e xenofobo”.

Forse la modernità amplifica il sentir comune di quella tendenza a sfuggire la comunione, nella “continua lotta in difesa del bene individuale” che può essere la città, il posto di lavoro, il quartiere o l’abitazione.

C’è una profonda scissione nella jungla cittadina che separa gli elementi utili alla società, con un lavoro e una degna posizione sociale, gli underclass, immigrati, esclusi, disoccupati, diversi e per questo pericolosi.

Il centro nevralgico appare l’occupazione lavorativa. La ratio economica ancora una volta prevale sulla vita sociale degli individui, sull’aspetto umano che li caratterizza rilegando ai margini gli esclusi, quali scarti del progresso economico, facili prede di sfruttamento, discriminazione sociale e pregiudizio delittuoso.

Divide et Impera.

Una riflessione sorge spontanea: ma l’organizzazione logistica dei quartieri metropolitani, ben distinti e delimitati tra loro, riflette questa divisione socio-culturale o ne è essa stessa la causa?

Servono città a misura d’uomo, ma soprattutto a misura delle paure dell’uomo!

Una cultura della cooperazione è necessaria perché quest’individualismo esasperato non può che scatenarsi in atti di violenza incontrollabili (atti xenofobi, vandalismo, bullismo…) o nella tendenza primitiva a sfuggire al pericolo fuggendo dalla metropoli, tornando a ripopolare i piccoli borghi natii, facendo rivivere gli orti dismessi, piantando nuovi alberi nei propri campi.

Tutto questo è realizzabile anche in una grande metropoli. Non serve rifuggire nel proprio guscio, ma è importante uscirne per incontrare l’altro, godendo dello spettacolo magnifico che l’umanità nella sua diversità è in grado di offrire trovando le parole giuste per ricominciare, oltre la paura della città super-moderna, un tempo luogo simbolo di progresso, crescita e sviluppo, oggi centro propulsore di egoismo, rabbia e violenza.

Leggi anche: Rome Art Week 2022: il Gioco degli Archetipi, Act One

1 Comment
  1. Condivido ogni rigo del tuo scritto e voglio complimentarsi per avere usato un linguaggio “facile” che arriva in modi chiaro ed esaustivo. Complimenti Marilena.

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