Guerra in Libia: cause e rischi di uno scontro assurdo

Il dramma della guerra in Libia. Ormai da otto lunghi anni una guerra assurda quanto sanguinaria tormenta la Libia, una terra un tempo florida e ricca, tra gli stati più influenti dell’Africa settentrionale, sbocco fondamentale sul Mediterraneo. Ma da dove è partita questa crisi poi trasformatasi tragicamente in guerra, che ancora oggi sembra lontana da […]

Aprile 2019
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Il dramma della guerra in Libia.

Il dramma della guerra in Libia.

Ormai da otto lunghi anni una guerra assurda quanto sanguinaria tormenta la Libia, una terra un tempo florida e ricca, tra gli stati più influenti dell’Africa settentrionale, sbocco fondamentale sul Mediterraneo.

Ma da dove è partita questa crisi poi trasformatasi tragicamente in guerra, che ancora oggi sembra lontana da una soluzione?

Nel 2011 l’obsolescenza delle condizioni ostative alla rivoluzione dello status quo in Libia è stata causata da tre cause efficienti, che hanno permesso la trasformazione delle proteste di piazza in una guerra civile internazionalizzata:

a) la volontà dell’amministrazione Obama di tracciare una linea di discontinuità con la politica estera della presidenza Bush, chiudendo definitivamente la missione in Iraq nel 2011 (nonché la rete di crediti e debiti ad essa collegata) e spostando l’attenzione dalla regione del Grande medio oriente al quadrante Asia-Pacifico;

b) il nuovo approccio della Casa bianca alle crisi internazionali che, fondandosi sulla convinzione del declino del potere e del prestigio americani, ha indotto gli Stati Uniti ad affidarsi all’azione dei loro alleati nelle regioni non considerate vitali per l’interesse nazionale (il cosidetto leading from behind);

c) la risoluzione 1973 dell’Onu, con cui nel marzo 2011 è stata istituita una zona d’interdizione al volo per tutelare l’incolumità della popolazione civile libica, che ha rappresentato la cornice giuridica della successiva operazione della NATO.

L’opzione militare è stata vigorosamente richiesta dalla Francia e dalla Gran Bretagna che si sono appellate al principio di “ingerenza umanitaria”, formulato nel 1999 per la missione in Kosovo, e a quello della responsibility to protect, adottato nel World Summit 2005 e confermato in un documento del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon nel 2009 (cui si ispirò, curiosamente, anche la risoluzione 1973).

Come già avvenuto nella crisi di Suez del 1956, Parigi e Londra hanno deciso di agire congiuntamente per riaffermare la loro influenza nel cuore del mar Mediterraneo e hanno cercato di porsi alla testa della missione internazionale per dettarne i tempi e le finalità.

Se la missione in Libia non avesse determinato gli effetti disastrosi cui il mondo sta assistendo, verosimilmente la Francia e la Gran Bretagna avrebbero potuto riempire il vuoto politico generato nella regione dalla rinuncia degli Stati Uniti al ruolo di “nazione necessaria”.

L’abbattimento del regime del raise (Gheddafi), la transizione della Libia verso un’ipotetica condizione di democrazia avrebbero legittimato il nuovo ruolo di Francia e Gran Bretagna e, contemporaneamente, permesso loro di ridisegnare i rapporti di forza nel settore energetico del Paese.

Nel 2011, inoltre, questi obiettivi di ordine internazionale si coniugavano con alcune necessità di politica interna, in particolare per i transalpini.

Per il presidente francese Nikolas Sarkozy un successo internazionale conseguito in nome della difesa dei diritti umani avrebbe costituito un’importante fonte di legittimazione in vista della corsa per l’Eliseo del 2012 (che poi lo vide sconfitto da François Hollande).

Una vittoria avrebbe prodotto effetti simili anche per il primo ministro inglese David Cameron, il cui governo attraversava un crollo dei consensi a causa della crisi economica che stava colpendo il Paese.

L’intervento militare contro un regime autoritario che – in passato – aveva attentato contro gli interessi della Gran Bretagna avrebbe potuto generare una rigenerazione dei consensi, come avvenuto con la guerra per le Falkland al governo di Margaret Thatcher nel 1982.

L’inefficacia della prima fase delle incursioni aeree e dei bombardamenti dalle unità navali sul territorio libico, che ha visto impegnati principalmente la Francia e la Gran Bretagna e in misura minore Stati Uniti, Canada e Belgio, ha imposto la riconsiderazione dell’intensità dell’impegno americano.

Le operazioni sono state così unificate sotto il comando della NATO, cui hanno aderito, tra gli altri, la Spagna, la Turchia e (purtroppo) l’Italia, che pure vantava una ottima trama di rapporti politici e commerciali con il regime di Gheddafi.

Guerra in Libia: il ruolo dell’Italia.

Prima di aver preso questa scelta, divenuta obbligata a causa del precipitare della situazione, l’atteggiamento dell’Italia era stato orientato dalla prudenza, non in nome di una qualche forma di “simpatia” (nel senso letterale del termine) nei confronti del regime di Gheddafi, ma per quel nesso di “reciproca indispensabilità” che univa da sempre il nostro Paese alla Libia.

I rapporti di potere nella regione euro-mediterranea, la prossimità geografica, i legami storici e gli interessi economici che legano Roma e Tripoli hanno determinato nel periodo compreso tra il febbraio e l’aprile 2011 il tentennamento dell’Italia sulla crisi.

Le sue posizioni, tuttavia, sono state scavalcate dall’azione di Parigi e Londra, il cui approccio spregiudicato alla questione è stato determinato dalla minore densità della loro interazione con la società libica.

In questa fase, peraltro, ogni resistenza ufficiale di Roma all’intervento militare rischiava di fornire il destro ad una campagna di delegittimazione internazionale, fondata proprio sull’intensità dei rapporti con Tripoli.

All’indomani dello scoppio della rivolta in Cirenaica sono immediatamente emersi molti segnali che prefiguravano la materializzazione di questo rischio.

I più importanti organi europei di stampa, infatti, hanno pubblicato una serie di articoli volti a sollevare scandalo intorno alle relazioni tra il governo italiano e quello libico.

Come in tutte le guerre civili, ma in particolare quelle dove intervengono forze esogene, nel 2011 anche il conflitto libico aveva contorni tanto indefiniti da rendere verosimili una serie di scenari futuri profondamente diversi, ad ognuno dei quali era connessa una serie di rischi per l’Italia.

Il primo era quello di una guerra civile prolungata (modello “Somalia”), che avrebbe causato la presenza davanti alle coste italiane di un failed State diviso in più entità autonome ugualmente incapaci di estendere la loro autorità sull’intero territorio nazionale.

A questa prospettiva, poi rivelatasi quella più realistica, si sono collegati alcuni pericoli ricorrenti per una condizione simile:

  • esodi apocalittici di profughi, emergenze sanitarie, proliferazione del terrorismo, aumento della circolazione illegale di armi e traffico di droga.

Il secondo scenario era quello del fallimento strisciante della Libia (modello “Libano”), determinato dalla presenza di alcune porzioni di territorio fuori controllo o non completamente sotto l’autorità del governo centrale, le cui derive anarchiche più estreme sarebbero state evitate solo con l’intervento di forze internazionali, i cui costi maggiori sarebbero spettati all’Italia.

Il terzo scenario prevedeva la vittoria delle forze lealiste (modello Algeria). A questo era collegata la possibilità che Gheddafi, o i suoi eredi politici, dopo aver represso la rivolta avrebbero messo in atto una serie di ritorsioni – dai contorni difficilmente prevedibili – contro il “tradimento” italiano.

Il quarto scenario era la vittoria delle truppe fedeli al presidente del Consiglio Nazionale di Transizione Libico, Mustafa Abdul Jalil (modello Iraq).

A questo scenario erano associate criticità diverse, ma non meno preoccupanti. Da un lato l’emergere di una classe politica legata alla Fratellanza musulmana o ad altri gruppi islamisti, che avrebbe contribuito alla diffusione del radicalismo islamico sulla sponda settentrionale del Mediterraneo.

Dall’altro l’indebolimento della posizione dell’Italia in territorio libico, come conseguenza di una revisione degli accordi siglati dal precedente regime e della volontà di sanzionare gli Stati con cui questo aveva collaborato.

Guerra in Libia: a distanza di otto anni lo scenario che si è realizzato è quello del “modello Somalia”.

Questo ha confermato come gli interventi umanitari “a basso costo”, che non prevedono la fase boots on the ground, per un fenomeno di eterogenesi dei fini producono conseguenze di gran lunga peggiori di quelle che vogliono evitare.

È comunque possibile affermare che se sul territorio libico non fosse spirato il vento della primavera araba, un concetto inutilizzabile ex post a causa del quasi totale fallimento democratico di questa ondata rivoluzionaria, l’Italia non avrebbe dovuto fronteggiare quattro minacce che si sono concretizzate tra il 2011 e il 2018:

  • il divampare di una guerra civile a poco più di 300 chilometri da Lampedusa;
  • il radicarsi dell’estremismo islamico in un’area sensibile per la sicurezza del suo territorio e i suoi interessi economici;
  • l’emergenza dell’immigrazione clandestina e il consolidamento delle reti criminali che la controllano;
  • la possibilità di perdere una delle sue principali fonti di approvvigionamento energetico.

Ipotesi oggi maledettamente concrete, che aprono scenari apocalittici per l’Europa, in particolare per l’Italia (ancora vincolata dagli accordi di Dublino), per i profughi che transitano loro malgrado in Libia, dove vengono detenuti illegalmente in condizioni disumane e per il popolo libico, che vive una crisi umanitaria, economica e sanitaria senza precedenti.

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