Processo Penale del terzo millennio: le due verità

Processo penale del terzo millennio: verità processuale versus verità mediatica. Una dea con gli occhi bendati. Così è raffigurata la giustizia nella Roma Antica dove giudicare impone di non vedere. E se in una celebre poesia di Edgar Lee Masters se ne fa uso per criticare la cecità delle corti e l’arbitrarietà delle sentenze, la […]

Luglio 2019
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Processo penale del terzo millennio: verità processuale versus verità mediatica.

Processo penale del terzo millennio: verità processuale versus verità mediatica.

Una dea con gli occhi bendati. Così è raffigurata la giustizia nella Roma Antica dove giudicare impone di non vedere. E se in una celebre poesia di Edgar Lee Masters se ne fa uso per criticare la cecità delle corti e l’arbitrarietà delle sentenze, la benda appare nell’iconografia ufficiale la garanzia dell’imparzialità e incorruttibilità dei giudici.

Ma in un universo saturo di immagini come il nostro è un’impresa ardua. Infatti, oggi che la benda è caduta la giustizia si offre allo sguardo mediatico a cui nulla sfugge, sempre. Oggi è sufficiente un clic.

Ma la visibilità e la conoscenza viaggiano sempre side by side?

Sicuramente no. Perché? Il fatto di offrire il processo allo sguardo mediatico senza passare attraverso il filtro del rituale giudiziario significa, sovente, assistere ad uno spettacolo dell’assurdo che indebolisce sia la giustizia che l’informazione, che sono in fondo i veri pilastri delle democrazie liberali.

Processo penale del terzo millennio: dalle aule ai media.

Ed è così che il processo penale dal terzo millennio migra dalle aule di giustizia, abbandona i suoi riti e simboli e diventa mediatico.

Veniamo costantemente bombardati attraverso la stampa, la televisione, internet, le docu-fiction e i talk-show da parole e immagini.

Lo sviluppo tecnologico dei nuovi mezzi di comunicazione  ha eccitato la pulsione voyeuristica e ha fatto assopire, al tempo stesso, il desiderio di una comprensione che vada al di là dell’immediatamente visibile. Antoine Garapon.

Oggi assistiamo alla mise en scène di veri e propri processi paralleli imbastiti dai media.

Ed esiste tutta una schiera di attori, esperti, opinionisti che, invece di appagare il diritto dell’opinione pubblica di essere informata e il diritto-dovere dell’informazione di raccontare i fatti, inseguono una verità emotiva, che non coincide mai né con quella processuale né tantomeno con quella storica.

E qual è il risultato? Quello di lasciare l’opinione pubblica con l’amaro in bocca, di provocare disorientamento, confusione e sfiducia nella giustizia.

“Un processo assomiglia a un dramma in quanto che dal principio alla fine si occupa del protagonista, non della vittima.” Hannah Arendt.

Non è automatico che nell’era della comunicazione globale l’informazione renda più semplice la conoscenza dei fatti. Il processo mediatico, per  ricostruire i casi giudiziari, si avvale di schemi, riti, procedure e simboli che sono propri del mondo giudiziario.

Ma li riproduce  però con i ritmi ed il linguaggio che sono estranei al mondo della giustizia. Ed è lecito chiedersi se tutto ciò aiuti il cittadino a costruirsi un’opinione corretta. Sicuramente appaga i voyeurs e i curiosi.

Convincimento alternativo.

Il vero rischio è però quello di formare un convincimento alternativo e parallelo rispetto a quello che si forma nell’aula di udienza. Di conseguenza può accadere che le sentenze pronunciate in aula vengano percepite come ingiuste se non coincidono con quelle mediatiche.

Spesso il processo mediatico travalica il diritto di critica e non passando attraverso il filtro del “rituale” giudiziario può divenire una vera e propria insidia posta sulla via della conoscenza. Infatti, può indebolire la giustizia ed incidere negativamente sulla qualità della democrazia.

«Giudicare impone di non vedere». Hannah Arendt.

Infiniti i processi in prima pagina, ecco alcuni tra gli esempi più eclatanti.

Dicembre 2009:  la Corte d’assise di Perugia condanna Amanda Knox, cittadina americana, e Raffaele Sollecito, rispettivamente  a 26 e 25 anni di carcere per aver ucciso Meredith Kercher, cittadina inglese.

Accade in una villetta di Perugia, dove i tre ragazzi studiano. Ed ecco che la notizia corre sul tam tam delle pagine dei media nazionali e internazionali. L’opinione pubblica mondiale si divide in due: innocentisti e colpevolisti.

E se gli americani sono indignati per il funzionamento della giustizia italiana, gli inglesi sono invece appagati. Il resto del mondo?

Si divide più o meno equamente tra innocentisti e colpevolisti.

Del processo si occupa persino la Washington politica. L’allora segretario di Stato, Hillary Clinton, riferisce che presterà ascolto a chiunque nutra dubbi e preoccupazioni su com’è stata gestita la vicenda giudiziaria di Amanda.

Ma i casi di spettacolarizzazione mediatica del processo penale sono numerosi.

I più dibattuti?

Il delitto di Cogne, quello di Garlasco, il processo Mills-Berlusconi per corruzione giudiziaria, quello nei confronti di Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, l’omicidio di Chiara Poggi, di Sarah Scazzi.

E la lista dei processi è purtroppo infinita: Yara Gambirasio, Roberta Ragusa, Elena Ceste, Noemi, Deborah ed ancora tanti altri.

E l’occhio vigile dei media segue sempre da vicino l’andamento della giustizia.

Giudizi che vengono anticipati nei talk-show, su Facebook, Twitter, YouTube, dove l’imputato ricopre il ruolo di star e giudici, avvocati, testimoni diventano gli ospiti più ricercati.

Ma non dimentichiamo che esiste una profonda differenza tra l’ascoltare dal vivo le intercettazioni telefoniche e leggerne la trascrizione sulla stampa.

Ciascuno darà alle parole e alle frasi degli intercettati una valenza ed un peso diversi.

In verità il punto di vista cambia già nelle aule giudiziarie a seconda che quelle intercettazioni vengano utilizzate dal pubblico ministero o dalla difesa.

Processo penale: l’agorà dei nostri tempi.

La TV e i media sono diventati l’agorà dei nostri tempi. Nell’Atene del V secolo a.C., nell’agorà ognuno poteva sostenere la sua tesi e controbattere a quella altrui.

Al contrario questa prerogativa viene negata allo spettatore televisivo che subisce passivamente l’informazione. Spesso la verità storica non coincide con quella processuale, ma quasi mai con quella mediatica.

E se giudicare è estremamente difficile, condannare lo è ancor di più.

«Al di là di ogni ragionevole dubbio», recita  il nostro codice di procedura penale, facendo propria una formula americana che sottolinea i limiti insiti nell’atto di giudicare.

«La saggezza del giudizio si rivela attraverso fragili compromessi non tanto tra il male e il bene, il bianco e il nero, quanto tra il grigio e il grigio o, nel caso sommamente tragico, tra il male e il peggio”. Paul Ricœur.

Certamente il progresso delle tecniche di comunicazione  da un lato, ha elevato il livello delle libertà, e quindi della democrazia, dall’altro ha dato luogo ad una distorsione dei fatti tale da sostituire un mondo fittizio a quello reale.

Ed è allora assolutamente necessario che l’informazione, così come  la giustizia, resti costantemente ancorata ai fatti e si faccia carico della complessità del processo, con tutto il suo fardello di  regole, riti e simboli. Sicuramente non si devono tarpare le ali ai media.

Cronaca giudiziaria.

La cronaca giudiziaria appassiona fortemente l’opinione pubblica ed  è capace di riempire teatri, cinema, libri, quotidiani. Metterle il bavaglio sarebbe antidemocratico e anacronistico.

Ma il palcoscenico mediatico è diverso da quello delle aule di giustizia. Il suo linguaggio è profondamente diverso. E se nelle aule di udienza ciascuna delle parti ricopre un ruolo preciso ed interviene seguendo un rituale prestabilito dalla legge, non è così per il processo mediatico.

Perché un non-spazio e un non-tempo sono invece gli ambiti in cui si muove il processo mediatico e pubblicare integralmente, al di fuori del processo, un documento o un fascicolo processuale può essere destituito di qualsiasi significato.

Vedere e sapere comunque tutto può non servire a nulla se ciò che difetta è un punto di riferimento comune tra processo mediatico e verità processuale. Ed ecco che forse troviamo il senso di quella benda sugli occhi della giustizia da cui siamo partiti all’inizio.

Perché «chiudendo gli occhi si diventa spettatori imparziali, non toccati direttamente dalle cose visibili», come sosteneva la Arendt.

Riferimenti bibliografici.

Paul Ricœur, Il Giusto,Vol. I, trad. it. di Daniella Iannotta, Cantalupa (TO), Effatà, 2005, pp. 224, ISBN 88-7402-253-0.

Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, 1964.

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