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Mutuo | Quando diventa un affare per il cliente della banca

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Mutuo

Chi lo dice che le sentenze non possano contenere un pizzico di originalità?

 

Ed infatti il Tribunale di Taranto con la sentenza n. 1987 depositata il 7 luglio 2019 ha trattato, a volte con un pizzico di effervescenza, tutti gli aspetti che costituiscono il filo conduttore dei giudizi intrapresi dai mutuatari nei confronti delle banche.

Armato di un vero e proprio “piccone” il giudice ha demolito le argomentazioni offerte dal mutuatario, colpo dopo colpo, con dovizia di argomentazioni non solo molto tecniche, ma anche storiche.

Esaminiamo alcuni degli argomenti trattati dal giudice nel lungo, ben 58 pagine, e articolato provvedimento.

Mutuo:

L’ammortamento alla francese

In 30 anni di durata di ammortamento del mutuo l’attore avrebbe dovuto restituire complessivamente euro 228.758,40, di cui euro 108.294,42 per adempimento dell’obbligazione restitutoria della sorte capitale ed euro 120.463,98 per pagamento di interessi e spese.

Il costo complessivo del credito è così pari al 111,238% in 30 anni, equivalente al 3,7079% all’anno. Ebbene, dovendo, l’attore, adempiere alle obbligazioni del mutuatario secondo lo schema degli artt. 1813, 1815, 1816 del codice civile, dovrebbe restituire la somma mutuatagli di euro 108.294,42 dopo 30 anni, insieme ad euro 200.128,88 per interessi computati senza capitalizzazione al tasso del 6,16% annuo.

Ma, invece, il mutuo alla francese, un vero affare per il cliente, consente al mutuatario di risparmiare la differenza tra euro 200.128,88 (per interessi che avrebbe pagato restituendo secondo le regole ordinarie) ed euro 120.463,98 (per interessi che invece dovrà pagare secondo il sistema di ammortamento francese): un risparmio di quasi 80.000 euro.

Per il Tribunale di Taranto, quindi, “sotto le vesti dell’odiato ammortamento alla francese si nasconde una sorta di Babbo Natale per il mutuatario”.

Tra l’altro per il giudice non esistono Leggi o atti aventi forza ed efficacia di legge i quali comminino la invalidità per il sistema di ammortamento secondo il c.d. sistema francese e, a guisa di corollario, la totale inefficacia delle sentenze che ne affermino la invalidità senza alcun riferimento a Leggi ed atti aventi forza ed efficacia di legge

La presunta cumulabilità dell’interesse moratorio con l’interesse corrispettivo

Altro punctum dolens affrontato dalla sentenza è quello del cumulo tra interessi moratori e interessi corrispettivi.

Il giudice osserva che in realtà “la giurisprudenza non famosa” aveva da molto tempo escluso in radice ogni cumulabilità tra interesse corrispettivo ed interesse moratorio con poche e semplici parole. E semplice è anche la questione in diritto artificiosamente elevata a vexata quaestio con argomentazioni “ora capziose ora palesemente in contrasto col dettato normativo ora palesemente in contrasto con i lavori preparatori delle leggi e degli atti aventi forza ed efficacia di legge”:

Nella giurisprudenza non famosa sin dal 2003 interesse corrispettivo ed interesse moratorio sono considerate:

a) “due facce della stessa medaglia”: quando si vede l’una non si può vedere l’altra;

b) Due compartimenti stagni e non vasi comunicanti: il liquido contenuto nell’uno non transita mai nell’altro;

c) Acqua ed olio versati nello stesso recipiente: non danno mai vita ad un unico liquido.

Da ciò discende che tutta la materia relativa al rapporto tra interessi moratori e interessi corrispettivi può così compendiarsi in un brocardo: “uno stesso giorno può produrre un solo interesse”.

Mutuo:

Il superamento del tasso soglia

Nessuna clausola del contratto di mutuo oggetto della sentenza prevede che una unità di sorte capitale produca per i medesimi giorni creditori sia interessi corrispettivi che interessi moratori.

Quindi, per il Tribunale  arbitrario è dedurre il cumulo aritmetico tra tasso di interesse corrispettivo ed il tasso di interesse moratorio per inferirne il superamento del tasso soglia antiusura.

Dal fenomeno del cumulo degli interessi moratori e corrispettivi, non previsto da alcuna norma contrattuale, per il giudice, deve essere distinto il diverso fenomeno della produzione di interessi moratori sulle rate scadute comprensive di quota capitale ed interesse, espressamente previsto dall’art. 3 commi 1 e 2 della Delibera Cicr del 09 febbraio 2000 e dal nuovo art. 120 comma 2 lett.b) del D.Lvo n. 385/1993.

In questo caso non vi è il cumulo in quanto la quota interessi delle rate scadute esprime la fecondità del danaro per i giorni creditori in cui il contratto ha avuto esecuzione producendo interessi corrispettivi.

Gli interessi moratori, invece, esprimono la conseguenza risarcitoria che per altri e distinti giorni creditori, in cui il contratto è entrato in fase di inadempimento temporale conosciuto come “ritardo” dall’art. 1218 cc, è prodotta nei confronti di somme dovute in forza di altri e precedenti giorni creditori.

L’art. 1224 del codice civile del 1942 è infatti rubricato come “danni nelle obbligazioni pecuniarie” e così dispone:

“Nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di danaro sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno.”

Il sostantivo “danno” evoca così in modo non equivoco la conseguenza di un fatto illecito, stante la regola generale dettata nell’ art. 1218 del codice civile che dall’inadempimento fa derivare un possibile danno sancendone la doverosa risarcibilità.

L’art. 1231 del Codice Civile del Regno d’Italia del 1865

Ed addirittura il Tribunale per motivare la sentenza scomoda il codice civile del 1865.

Il giudice sostiene che l’inquadramento dogmatico trova solido fondamento nell’art. 1231 del Codice Civile del Regno d’Italia del 1865:

“In mancanza di patto speciale, nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di danaro i danni derivanti dal ritardo nell’eseguirle consistono sempre nel pagamento degli interessi legali, salve le regole particolari al commercio, alla fideiussione ed alla società. Questi danni sono dovuti dal giorno della mora senza che il creditore sia tenuto a giustificare alcuna perdita”.

Il quadrilatero logico giuridico formato da “inadempimento-ritardo-danno-interessi moratori” è così normativamente consacrato.

E che gli interessi moratori abbiano natura risarcitoria è conclamato dall’ultimo comma dell’ art. 1224 c.c.: “Al creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore spetta l’ulteriore risarcimento. Questo non è dovuto se è stata convenuta la misura degli interessi moratori.”

L’ “ulteriore risarcimento” è così espressamente escluso dalla presenza di un tasso convenzionale degli “interessi moratori” che rappresentano così il “risarcimento convenzionale” concordato tra le parti del contratto e, quindi, si identificano con la clausola penale di cui all’ art. 1382 cc.

La natura risarcitoria dell’interesse moratorio è altresì fatta palese dalla perfetta identità semantica tra art. 1224 comma 1 cc (“sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali…anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno.”) e l’art. 1382 ultimo comma c.c. (“La penale è dovuta indipendentemente dalla prova del danno”).

Più che mai attuale per il Tribunale è anche la laconica giurisprudenza di inizio ‘900: “gli interessi moratori invece, che rappresentano una specie di penalità comminata dalla legge al debitore che manca all’impegno assunto, decorrono dal giorno nel quale l’obbligazione avrebbe dovuto eseguirsi” (Cassazione Civile di Torino, sentenza 16 febbraio 1906, Venini c. Parravicini).

La totale eterogeneità tra interessi corrispettivi e moratori, legati agli estremi di una antitesi concettuale del diritto civile (adempimento – inadempimento) fa sì che una unità di sorte capitale produca, in relazione ai distinti giorni creditori, sempre e solo una tipologia di interesse: corrispettivo nella fase di attuazione del contratto; moratorio nella fase di inadempimento del contratto.

L’interesse moratorio, pur se applicato all’interesse corrispettivo già scaduto, è comunque frutto di giorni creditori diversi e successivi rispetto ai giorni creditori da cui hanno tratto origine gli interessi corrispettivi scaduti ed insoluti e sui quali, considerati come capitale, si applica l’interesse moratorio: anche per tale rilievo è inammissibile ed apodittico ipotizzare il “cumulo”.

Pertanto uno stesso giorno non può mai produrre in relazione alla sorte capitale, sia interessi corrispettivi e sia interessi moratori.

Perché? Lo escludono la Legge dello Stato negli artt. 821 comma 3 c.c., 1224 c.c. e lo esclude il contratto, che non prevede affatto la c.d. bifasicità degli stessi giorni creditori nella produzione di ambo i tipi di interesse.

L’usura sopravvenuta

Manifestamente violato dalla tesi che applica la fattispecie di cui all’ art. 644 cp alla c.d. usura sopravvenuta, è ancor prima lo stesso principio di legalità fissato nell’art. 1 del c.p. che, così dispone:

“Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite.”

Ebbene, nella interpretazione delle norme penali incriminatrici occorre così limitarsi al significato “espresso” della formulazione normativa, senza poter ricorrere ad interpretazioni analogiche o implicite.

E tanto si desume dall’impiego dell’aggettivo “espresso” utilizzato dalla rubrica dell’ art. 1 del codice penale, in alternativa all’avverbio “espressamente” di identica densità semantica, quando vuole istituire il c.d. numerus clausus precludendo al giudice ogni interpretazione additiva, così come prevede  nella materia dei titoli esecutivi l’art. 474 c.p.c..

Ancora in tema di termini perentori stabiliti a pena di decadenza, ove l’art. 152 comma 2 del c.p.c. esige per la natura perentoria del termine l’attribuzione di tale qualità con una espressa definizione normativa, onde solo la Legge può creare ipotesi di decadenza con la comminatoria della natura perentoria del termine dalla cui violazione essa derivi.

La conseguenza di tale interpretazione per il Tribunale è che sono da considerarsi non conformi al diritto obbiettivo le interpretazioni che affermano l’esistenza di titoli esecutivi, o di cause di decadenza per violazione di termini nel processo civile, o di fatti penalmente rilevanti e costituenti reato, senza una espressa disposizione di legge, in quanto l’avverbio “implicitamente” esprime un contenuto semantico contrario a quello contenuto nell’avverbio “espressamente”, così come l’aggettivo “implicito” è l’esatto contrario dell’aggettivo “espresso”.

Ed ai termini espressamente e implicitamente il giudice dedica anche alcune note della sentenza (cfr. pagg. 35-37 del provvedimento).

Il momento di perfezionamento del contratto di mutuo

In modo del tutto simile opera nel tessuto normativo l’art. 1815, comma 2, c.c., ove il lessico utilizzato dal legislatore nel limitare l’ambito di operatività della norma al momento della costituzione del vincolo contrattuale, esclude efficacia invalidante ai mutamenti dei tassi di interessi che si verifichino successivamente al momento di perfezionamento del negozio di mutuo che ha natura reale.

E poi c’è l’art. 1 del DL 394/2000 che dispone: “si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono promessi o comunque convenuti a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento.”

La conseguenza di tanto è che al momento della costituzione del vincolo negoziale occorre aver riguardo per accertare l’eventuale usurarietà del tasso di interesse, mentre la c.d. usurarietà sopravvenuta, determinata dal mutamento successivo dei tassi accertati ex legge n.108/1996 rispetto a quelli esistenti al momento di costituzione del vincolo contrattuale, dovrà essere valutata alla stregua dell’art. 1467 c.c..

L’alterazione del sinallagma funzionale che da quel mutamento dei tassi potrà derivare se “eccessivamente onerosa” per causa di avvenimenti sopravvenuti “straordinari ed imprevedibili”, darà alla parte in pregiudizio della quale sia stato alterato il sinallagma funzionale il diritto a chiedere la risoluzione del contratto, cui la parte avversa potrà opporre la disponibilità alla reductio ad aequitatem.

 In difetto dei presupposti di eccessiva onerosità resterà assorbita nella c.d. alea normale del contratto ai sensi dell’art. 1467, comma 2, c.c.  e determinerà la maggior convenienza per una delle parti del contratto: per il mutuante nel caso in cui i tassi successivi siano inferiori; per il mutuatario nel caso in cui i tassi successivi registrino un incremento.

In entrambi i casi si rimane nel lecito e non v’è pretesa dell’una parte verso l’altra.

Tutte le domande dell’attore sono state rigettate.

Per chi volesse approfondire la lettura degli argomenti trattati si rimanda al provvedimento integrale allegato al presente contributo.

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