La scure degli Ermellini sul ricorso prolisso
Se il ricorso è troppo lungo per gli Ermellini è inammissibile. In tal senso ha deciso la Suprema Corte con la sentenza n. 18962 depositata il 31 luglio 2017, che ha totalmente respinto un ricorso lungo ben 51 pagine. La Corte torna ad occuparsi delle condizioni d’ammissibilità del ricorso per cassazione. E, in specie, del […]
Se il ricorso è troppo lungo per gli Ermellini è inammissibile.
In tal senso ha deciso la Suprema Corte con la sentenza n. 18962 depositata il 31 luglio 2017, che ha totalmente respinto un ricorso lungo ben 51 pagine. La Corte torna ad occuparsi delle condizioni d’ammissibilità del ricorso per cassazione. E, in specie, del requisito della “esposizione sommaria dei fatti di causa” prescritto dall’art. 366, comma 1, n. 3 c.p.c..
La sentenza si sofferma in una preliminare disamina dei principali rilievi svolti dalla giurisprudenza di legittimità sulla portata e la funzione del requisito innanzi indicato. Sottolineando come quest’ultimo serva in definitiva a consentire “alla Corte di Cassazione di percepire con una certa immediatezza il fatto sostanziale e lo svolgimento del fatto processuale”. In modo da consentire di “acquisire l’indispensabile conoscenza, sia pure sommaria, del processo” e “poter procedere alla lettura dei motivi del ricorso in maniera da comprenderne il senso”.
Da tanto discende, da un lato, che l’esposizione del ricorso per cassazione, anche se “non analitica o particolareggiata”, sia “chiara ed esauriente”. Dovendo ripercorrere tutti quei “fatti di causa” necessari affinché la Corte possa giungere subito a quella conoscenza di massima del processo tale da consentirle di passare all’esame dei motivi di ricorso entro un quadro di conoscenze funzionale all’adeguato inquadramento e alla comprensione del senso dei motivi medesimi.
Dall’altro si deve evitare che il difensore travalichi nel cd. “eccesso di esposizione”. In particolare, ravvisato dalla giurisprudenza della Corte nei casi di impiego della “tecnica della c.d. spillatura o del c.d. assemblaggio consistenti nella riproduzione, meccanica o informatica, di una serie di atti processuali e documenti all’interno del ricorso”, in quanto, come già chiarito in passato da molte pronunce, “la prescrizione contenuta nell’art. 366, primo comma, n. 3 c.p.c. … non può ritenersi osservata quando il ricorrente non riproduca alcuna narrativa della vicenda processuale, né accenni all’oggetto della pretesa, limitandosi ad allegare, mediante “spillatura “ al ricorso, … il testo integrale di tutti gli atti”, “così rendendo indaginosa l’individuazione della materia del contendere e contravvenendo allo scopo della disposizione”.
Inoltre, la sentenza in commento introduce un ulteriore tassello al quadro precedentemente evidenziato ritenendo che il cd. “eccesso di esposizione” “ben possa trovare applicazione anche nel caso in cui, pur non avendo il ricorrente inserito nel corpo del ricorso la fotoriproduzione degli atti del processo …, abbia tuttavia egualmente ecceduto nel riportare … ogni singolo accadimento processuale, sia pur con narrazione propria, ma senza alcuna necessità”.
In definitiva quello che si propone la sentenza in esame è contrastare l’inutile e sviante prolissità degli atti.
Si deve comunque sottolineare come la principale responsabilità di condotte simili a quella in esame sia da imputare alla stessa Corte di Cassazione. In particolare a quell’indirizzo interpretativo che ha finito col rendere il principio di autosufficienza del ricorso un mezzo attraverso il quale smaltire il contenzioso di legittimità. Con l’inevitabile conseguenza di indurre i difensori a cautelativi sproloqui d’esposizione.
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