WhatsApp: la chat come prova documentale nel processo penale.
Tutti sappiamo che WhatsApp è una applicazione creata nel 2009 per consentire agli utenti l’invio istantaneo di messaggi, foto, video, messaggi vocali, documenti, sfruttando la connessione dati (internet ndr), identificando il mittente tramite il proprio numero di cellulare.
Al momento della registrazione su WhatsApp l’utente inserisce il proprio numero di telefono a cui viene associata una password generata direttamente dal sistema senza alcuna possibilità di modifica da parte dell’utente.
Sulla sicurezza delle conversazioni il team di WhatsApp è intervenuto varie volte, da ultimo nell’aprile del 2016, creando un sistema denominato crittografia end-to-end.
Questo sistema conserva sui server di WhatsApp le conversazioni in forma cifrata e il contenuto può essere letto solo dal mittente e dal destinatario. Se però la conversazione viene lasciata sul proprio telefonino questa è accessibile a chiunque entri in possesso dello stesso.
Le conversazioni su WhatsApp possono essere utilizzate all’interno del processo penale. La giurisprudenza è unanime nel ritenere che le conversazioni intrattenute attraverso l’utilizzo del proprio smartphone costituiscono una sorta di memoria di un fatto storico che può essere comparabile ad una prova documentale e quindi utilizzabile ai fini probatori.
Infatti, l’art. 4 c.p.p., annovera tra la prova documentale ogni scritto o altro documento in grado di rappresentare fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo.
Come acquisire le conversazioni avvenute su WhatsApp?
Il metodo più comune per riprodurre in un giudizio le conversazioni WhatsApp è lo screenshot, ossia una foto istantanea dello schermo del cellulare che può essere salvata e poi stampata.
Un altro metodo è rappresentato dalla trascrizione integrale della conversazione avvenuta su WhatsApp.
Sulla trascrizione è intervenuta la Corte di Cassazione che, con la Sentenza n. 49016 del 25/10/17, ha precisato come:
- la trascrizione delle chat di WhatsApp se pur valida a rappresentare il fatto storico e quindi valida ai fini probatori ex art. 234 c.p.c., l’utilizzabilità della stessa però è condizionata dall’acquisizione del supporto (contenente la menzionata registrazione, svolgendo la relativa trascrizione una funzione meramente riproduttiva del contenuto della principale prova documentale trattandosi di prova documentale).
E’ evidente allora che i metodi innanzi enunciati non possano avere una piena valenza probatoria nel processo penale se non alle condizioni dette prima. Tantomeno si può chiedere l’acquisizione delle conversazioni al gestore dell’applicazione poiché le stesse sono protette dal sistema di crittografia “end to end”.
Resta fermo però il principio della libera valutazione da parte del giudice anche se il documento viene introdotto con le suddette modalità.
Qual è il metodo corretto?
Un metodo valido è rappresentato dalla c.d. copia forense. La legge che disciplina tale metodo è la n. 48 del 18/03/2008; la stessa stabilisce che per copia forense o copia bit a bit si intende:
- l’esatta duplicazione dei dati digitali presenti in un dispositivo, senza perdita di dati nella destinazione e senza alterazione di dati nella sorgente.
Sul punto è intervenuta la Corte di Cassazione che, con Sentenza n. 37419 del 5/07/2012, ha coniato il seguente principio di diritto:
- i dati di carattere informatico contenuti in un computer, in quanto rappresentativi di cose, rientrano tra le prove documentali e l’estrazione dei dati è un’operazione meramente meccanica, che non deve essere assistita da particolari garanzie.
Vale la pena ricordare che sempre la Corte di Cassazione con Sentenza n. 8736 del 22/02/2018, per quanto attiene le operazioni di acquisizione operate dalla PG durante la fase delle indagini, ha precisato che l’estrazione di dati archiviati in un supporto informatico non costituisce accertamento tecnico irripetibile, anche dopo l’entrata in vigore della L. 18 marzo 2008 n. 48, che ha introdotto unicamente l’obbligo per la polizia giudiziaria di rispettare determinati protocolli di comportamento, senza prevedere alcuna sanzione processuale in caso di mancata loro adozione, potendone derivare, invece, eventualmente, effetti sull’attendibilità della prova rappresentata dall’accertamento eseguito.
Appare d’obbligo che all’atto dell’acquisizione dei dati contenuti su WhatsApp, la parte si faccia coadiuvare da un tecnico esperto che verifichi l’eventuale manomissione del dispositivo dal quale sono stati estratti i dati.
Un ulteriore metodo è rappresentato dalla c.d. copia conforme ed autentica.
Questo metodo consiste nel fare autenticare da un pubblico ufficiale (Notaio) l’autenticità del documento informatico estratto dal dispositivo mobile. Questo metodo però non è ancora applicabile poiché la stessa associazione notarile sta vagliando le modalità della certificazione.
Conclusioni.
Sulla valenza ed efficacia probatoria la Corte di Cassazione offre vari spunti, non vi è ancora un orientamento uniforme o maggioritario. Qualunque sia il metodo attraverso il quale viene introdotto nel processo penale una prova estratta da WhatsApp, il giudice può liberamente valutarla.
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