Il tocco dorato dello zafferano

Fiore di Zafferano. Una volta o l’altra, tutti quanti dovremmo fermarci a riflettere sulla differenza tra “cucinare” e “far da mangiare”: in fondo, è un po’ come distinguere il mondo dell’arte da quello della tecnica, l’ispirazione dal metodo, le poesie dagli elenchi. Per raccontare dello zafferano, dobbiamo metterci comodi e rilassati, per scivolare dolcemente proprio […]

Maggio 2020
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storia sui fiori di zafferano

Fiore di Zafferano.

Una volta o l’altra, tutti quanti dovremmo fermarci a riflettere sulla differenza tra “cucinare” e “far da mangiare”: in fondo, è un po’ come distinguere il mondo dell’arte da quello della tecnica, l’ispirazione dal metodo, le poesie dagli elenchi. Per raccontare dello zafferano, dobbiamo metterci comodi e rilassati, per scivolare dolcemente proprio nella dimensione del cucinare. Approderemo in una dimensione esotica eppure così familiare, dove passato e presente si tingono della stessa spezia.

Gli stimmi scarlatti dello zafferano si intrecciano alla storia dell’umanità da secoli e secoli: il più antico disegno raffigurante la raccolta dei crochi è stato ritrovato in un papiro egizio del II secolo a.C. E non a caso parliamo di intrecci. Il nome “croco”, il timido fiore da cui origina la grande fama dello zafferano, deriva dal greco krokos, che vuol dire proprio “filo dei tessitori”.

Pare che Croco fosse un intimo amico del dio Mercurio, ferito a morte da un disco scagliato male da un atleta. Dal suo sangue gocciato a terra, come spesso accade nella mitologia greca, nacque il fiore di Croco. L’origine potrebbe anche essere legata a Smila, una ninfa devota ad Artemide, quindi legata alla promessa di verginità. Invaghitasi proprio di Croco, venne punita dalla dea che la trasformò nel fiore che oggi porta il nome del suo amato.

Ma il fiore dello zafferano non compare solo nei papiri e nella mitologia. Oltre ad essere citato nell’Iliade, nella Bibbia, nel Cantico dei Cantici, troviamo il suo inconfondibile profilo stilizzato anche nelle decorazioni parietali del palazzo di Cnosso, nel Kashmiri in India, in tutta l’Asia Minore.

(Pittura murale da knossos, XVI secolo a.C., Heraklion, Museo. Si riteneva che tale pianta fosse dotata di poteri antinfiammatori e diuretici).

(Pittura murale da Cnossos, XVI secolo a.C., Heraklion, Museo. Si riteneva che tale pianta fosse dotata di poteri antinfiammatori e diuretici)

Qualunque sia stata la sua origine, lo zafferano ci entusiasma da sempre. La sua affascinante tinta rosso scuro che, per un divertente gioco di chimica e temperatura, si trasforma in giallo caldo durante il suo impiego, ha colorato i tessuti degli abiti da cerimonia più belli della storia, i visi delle donne, ma soprattutto i deschi dell’intera umanità, attraversando le cucine di tutto il mondo e di tutte le epoche. 

Le principesse mongole ordinavano il pollo al garum masala, una miscela di spezie il cui vigore viene sì regalato da pepe, chiodi di garofano, cardamomo e altro, ma è proprio lo zafferano a conferirle il tipico colore giallo scuro. Utilizzato per tutta l’epoca romana, pareva non se ne potesse fare a meno anche durante l’intero Medio Evo: in quegli anni bui eppure pieni di alchimia, si desiderava che ogni pietanza, al momento del servizio, splendesse come l’Oro, ossia come lo Spirito Universale.

Secolo dopo secolo, lo zafferano si diffuse in tutta Europa: basti pensare alla paella spagnola, al gras de rost dei francesi, al bachalau portoghese, finché nell’Ottocento salterà in testa alla classifica delle spezie più utilizzate nella cucina italiana, diventando il simbolo culinario di Milano e del suo risotto.  

Da lì un vero boom: lo si ritroverà in certi liquori come il Fernet, nei rosoli, nella pasticceria, nel burro, perfino in alcuni formaggi. In Sardegna, la polvere rossa viene ancora oggi mescolata alla farina per insaporire dolci, pane e schiacciate. Ma sarà e resterà L’Aquila a creare l’impero della coltivazione dello zafferano: il suo terreno risulta ancora oggi perfetto, come geologia e come composizione, per conferire alla spezia la sua leggera nota amaricante. Non si è mai smesso di produrlo perché non si è mai smesso di utilizzarlo. Ragione di tutto questo: lo zafferano si mangia anche con gli occhi.

Fiori di zafferano.

Perché c’è in tutti noi, anche se crediamo di dimenticarlo, il desiderio che il cibo non sia solo buono, ma bello. Piatti grigiastri o sbiaditi non ci entusiasmano così tanto come quelli colorati. Da lì, probabilmente, anche il grande successo del sugo di pomodoro: pensiamo a un pollo bollito contro un pollo alla cacciatora, oppure una pasta al burro contro un’amatriciana.

Non solo. La doratura dello zafferano ci porta inconsapevolmente in un mondo simbolico o, esagerando, addirittura esoterico. Il che nasce già dalla metodica della sua coltivazione e, soprattutto, della sua raccolta. Il croco da zafferano è come i bambini, come i cani, come certe razze di canarini, come l’amore: non può esistere senza l’essere umano. Un campo di crochi, se non viene coltivato, si estingue in neppure tre anni.

Lo zafferano porta dunque intrinsecamente con sé un’idea di cura, di dedizione, di volontà. Se pensiamo a quanti fiori servono per una sua sola dose culinaria, possiamo affermare con una certa solennità mistica che lo zafferano sia la quintessenza di certi luoghi della Terra.

Bisogna raccoglierlo al mattino presto, in fretta ma con estrema delicatezza, prima che il fiore si apra. In mezzo ai filari, la raccolta – eseguita esclusivamente e scrupolosamente a mano – si snoda come una danza, come un punto croce, da destra a sinistra: si stringe tra pollice e indice il bocciolo per reciderlo infine con l’unghia. 

Occorrerà essere in tanti, stretti e coordinati, per unire la velocità alla delicatezza perché, al massimo dopo due o tre ore dal sorgere del sole, l’intero campo sboccerà irruento. Ammirare la fioritura completa, specialmente con la luce aranciata di fine ottobre, è ogni volta uno spettacolo intenso. Gli Spagnoli chiamano quel periodo “i giorni del manto”, perché la terra si riveste proprio di un fiorito manto incantato.

Man mano che la raccolta avanza, i fiori saranno adagiati in ampie ceste di vimini affinché non si schiaccino troppo, per venire subito mondati al momento del rientro. Le decine di lavoratori continueranno a sfregare i polpastrelli sui fiori per tutto il tempo, vista l’assoluta necessità di maneggiare il fiore in punta. 

Questo stesso gesto universale, come attraversasse una filiera animica invisibile, lo ripeteremo in cucina al momento dell’impiego dello zafferano: sempre strofineremo la cartina oleata della spezia con quella stessa cura, sapendo di star maneggiando qualcosa di prezioso e incisivo, come un sorriso, come un fiato. Come una poesia.

Ricette della storia e del mondo.

Proprio l’altro pomeriggio un amico mi ha fatto assaggiare dei biscotti incredibili preparati da lui, le fugazzette, secondo la ricetta di un suo antenato, di quasi due secoli fa. Qualche giorno prima si era fatto appositamente preparare da noi farmacisti una tintura di zafferano. Una cosina semplice: basti versare 10 grammi di polvere in 50 ml di alcool diluito a 60°. Si lascia lì.

Dopo qualche giorno, si rigira tale soluzione, la si filtra attraverso un telo doppio e la si versa in una bottiglietta di vetro scuro: la tintura di zafferano è fatta. Riporto ora fedelmente la ricetta, dispiacendomi solo di non poterla trascrivere a china e pennino, ma solo in digitale. Andrà comunque immaginata in uno di quei bei corsivi di una volta:

  • Pan biscotto pesto: once 2.1/2 (gr 87,5);
  • Miele di colo: once 4 (gr 140);
  • Coriandoli pesti: dramme 3 (gr 13,125);
  • Pignoli novi: 6 (gr 26,25);
  • Mandorle peste: 3 (gr 13,125);
  • Uva passa scielta: 6 (gr 26,25);
  • Mostarda;
  • Naranzetti in miele aa: 5 (gr 21,875);
  • Cannella sopraf.na pesta;
  • Spezie gialle;
  • Pevere pesto;
  • Zenzero pesto aa: 3 (gr 13,125).

Farina bianca quanto basti per far la pasta il che estesa e tagliata in quadri si pone una picciola quantità della mistura, e involta si pone in stampo; avvertendo che dopo essersi cotte si mettono nella tintura di zafranno per un sol momento, e subito si levano. (Dal ricettario personale del nob. Dr. Giulio del Torre, Romans d’Isonzo, 1830 circa)

Bibliografia.

  • “Lo Zafferano: Atti del Convegno Internazionale sullo zafferano” (Crocus sativus L.), L’Aquila 27-29 ottobre 1989 (Università degli Studi L’Aquila).
  • “Antiche ricette del Friuli goriziano” (Carlo del Torre, ed. LEG Libreria Editrice Goriziana, 2011), per gentile concessione dell’autore.
  • Foto dal web

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