E non se ne vogliono andare

Quando l’età che avanza è un “Non pervenuto”. E’ la riflessione spontanea che ha preso carica nella testa di tanti elettori alla vista di molti nomi noti e illustri silurati nell’ultima tornata elettorale: D’Alema, Bersani, Boldrini, Grasso, Minniti, Franceschini. Eppure, nonostante la cassa di risonanza del “no” pronunciato dagli elettori, i più si sono aggrappati […]

Marzo 2018
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E non se ne vogliono andare

Quando l’età che avanza è un “Non pervenuto”.

E’ la riflessione spontanea che ha preso carica nella testa di tanti elettori alla vista di molti nomi noti e illustri silurati nell’ultima tornata elettorale: D’Alema, Bersani, Boldrini, Grasso, Minniti, Franceschini.

Eppure, nonostante la cassa di risonanza del “no” pronunciato dagli elettori, i più si sono aggrappati al proporzionale per non andarsene. Per non perdere lo scranno. E Infatti, solo tre giorni fa, al rituale dell’elezione delle Presidenze di Camera e Senato hanno sfilato superbi e soddisfatti.

L’idiosincrasia verso la perdita della poltrona e quindi del potere è un fenomeno ricorrente anche in azienda.  Figure dirigenziali ormai mature, stanche, svuotate anche da una vita di scelte, cambiamenti, giri di boa più o meno consapevoli dovrebbero naturalmente lasciare posto e spazio a nuove generazioni più fresche, pronte e desiderose di buttare il cuore oltre l’ostacolo.

O inventarsi un meraviglioso e proficuo coaching di affiancamento ai collaboratori prescelti al fine di mettere in campo non tanto e non solo i fasti dell’autorità ma anche gli ingredienti dell’autorevolezza: ascolto, esempio, empowerment, spirito corporativo, orientamento all’obiettivo. Il passaggio di consegne non è mai un momento semplice o indolore.

Lo è ancor meno quando l’intenzionalità o l’opportunità di lasciare, non solo non è avvertita, ma è addirittura consacrata alla categoria del “non è ancora il momento” (mentre lo sarebbe oggettivamente per il resto del globo).

Nello sport il fenomeno è, a mio avviso, stringente ma anche più  complesso. Roger Federer sta vivendo e conducendo forse il momento migliore della sua carriera tennistica. A 37 anni suonati, settimana dopo settimana abbatte record (personali e non), alla stessa velocità con cui  crescono l’ammirazione e l’entusiasmo dei suoi fan.

Un esempio di longevità unico e completo sul quale riflessioni, pareri e poesie si sprecano. Chi lo ama prega perché il suo addio al tennis avvenga il più tardi possibile perché il vuoto che verosimilmente lascerà, appare, ad oggi, incolmabile, incalcolabile, inconsolabile.

Ma un campione come Valentino, poco più grande di Roger, che evidentemente sente di aver ancora tanto da dare e che ha costruito sulle due ruote la sua zona di confort ma che non vince da campione da anni, non dovrebbe valutare il ritiro?

Non dovrebbe contribuire a sigillare un’immagine di lui da campione da brividi e lacrime, appendendo il casco al chiodo? Perché ostinarsi a gareggiare con ragazzi di quasi vent’anni più giovani e dalle motovazioni omicide?

Il dubbio è che il motivo sia il timore di conoscere un vuoto di adrenalina, un limbo di emozioni ridotte al lumicino. L’incapacità di reinventarsi in un mondo dove il Campione 46 indossi la tuta da trainer.

Da trainer e basta. E incanali il suo genio per imbottire altri talenti di tecnica, intelligenza tattica e cuore. Una benzina che sa di vittoria e di possibile reiterazione della storia. Dove ruoli ed età si integrano in una staffetta perfetta. E dove il testimone va per definizione ceduto.

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