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C’era una volta a Hollywood: quanto è difficile essere un attore

C'era una volta a Hollywood: quanto è difficile essere un attore

Analizzare Tarantino con le teorie di Stanislavskij.

L’ultimo film di Quentin Tarantino, dal titolo Once upon a time at Hollywood (in Italia C’era una vita a Hollywood), mostra tra le altre cose le difficoltà di un attore. Alla luce anche delle teorie di Stanislavskij, è interessante analizzarlo da un punto di vista nuovo.

Oltre a rappresentare in generale la Hollywood degli anni ’70, tale film ha come centro la recitazione ed il mondo del cinema. I due protagonisti, interpretati da Leonardo DiCaprio e Brad Pitt, sono un attore e la sua controfigura. In un’ottica di “metacinema“, il film parla di film e vede due attori che interpretano due attori. Il personaggio di DiCaprio, in particolare, mostra quanto sia difficile avere successo e interpretare un personaggio al meglio.

Cosa direbbe Stanislavskij.

Il primo a voler davvero teorizzare il modo in cui un attore si applica in tal senso, è stato l’attore e regista teatrale Konstantin Sergeevič Stanislavskij, teorico del metodo che prende il suo nome. Stanislavskij fu un attore e regista teatrale, divenuto famoso per i suoi libri in cui, attingendo alla propria esperienza, ha teorizzato un metodo per la recitazione.

Nonostante non sia riuscito a mettere per iscritto tutte le sue teorie, poiché morì prima di completare le sue opere, il lavoro di Stanislavskij è ritenuto ormai la principale fonte per l’insegnamento della disciplina della recitazione. A lui va infatti il merito di essere stato il primo a teorizzare un vero e proprio metodo attraverso il quale è possibile recitare in modo ottimale. Stanislavskij è quindi il primo vero e proprio teorico e tecnico della recitazione, in quanto è un attore e regista che mette le proprie esperienze al servizio dei lettori per insegnare agli aspiranti attori come recitare.

Il cosiddetto metodo Stanislavskij si basa sull’immedesimazione dell’attore nel personaggio, al contrario di quel che sarà il metodo di straniamento di Bertolt Brecht. Secondo Stanislavskij la recitazione non è un impulso istintivo, ma è frutto di una grande ed intima immedesimazione e analisi. L’attore deve infatti approfondire la psicologia del personaggio, ma prima di tutto la propria e metterla al servizio dell’interpretazione.

Ne Il lavoro dell’attore su stesso”, Stanislavskij spiega come l’attore debba attingere al proprio subconscio ed alla propria coscienza, cercando non di replicare il personaggio in una situazione, ma di chiedersi cosa farebbe in una determinata situazione nei panni del personaggio, lavorando, insomma, su se stesso (domandandosi “se dovesse succedermi questo, che cosa farei?”), a favore di una verità.

L’immedesimazione segue diversi passaggi:

  • conoscenza, ovvero la lettura e memorizzazione del copione;
  • reviviscenza, che consiste in un’analisi delle proprie esperienze ed emozioni per metterle a servizio dell’interpretazione del personaggio;
  • personificazione, che è il risultato della reviviscenza;
  • comunicazione, che consiste nel l’instaurare appunto una comunicazione con gli altri attori.

Le difficoltà di Rick Dalton.

I due protagonisti di C’era una volta a Hollywood sono due personaggi che, per svariati motivi, non hanno più il successo sperato nel mondo di Hollywood. Rick Dalton in particolare è un attore che ha avuto grande visibilità grazie ad una serie, ma che si trova in declino, costretto a malincuore a recarsi a girare in Italia, i cui spaghetti di serie B sono parodiati in modo molto puntuale da Tarantino. Tuttavia Dalton non demorde ed è determinato a svolgere il suo lavoro al meglio delle proprie capacità.

In svariate scene lo vediamo memorizzare la parte e cercare di rendere al meglio, nonostante il suo abuso di alcol. Sul set Dalton improvvisa, reinventa, si infuria quando non ricorda la parte e deve chiedere “battuta” per avere un suggerimento. Si sente un fallito quando non riesce a dare perfettamente ciò che gli viene richiesto. Interessante a proposito del metodo dell’attore, è una sua conversazione con una sua collega sul set, una bambina di appena otto anni. La giovanissima attrice si fa chiamare addirittura con il nome del personaggio che deve interpretare, per entrare ancora di più dentro il personaggio. Anche dalla piccola nuova amica Dalton troverà una nuova motivazione.

C’era una volta a Hollywood: l’autostima di un attore.

Nel film è possibile notare l’ambizione e la frustrazione di Dalton che, al limite del tragicomico si dispera di una situazione lavorativa che non lo soddisfa in quanto vuole essere riconosciuto, vuole rendere bene. Questo si contrappone ad una Sharon Tate che si reca al cinema a vedere il film dove recita. Tuttavia, non viene nemmeno riconosciuta al cinema, ma da attrice diventa spettatrice e come tale è compiaciuta nell’osservare il pubblico ridere grazie a lei. La sua autostima non sembra vacillare minimamente, al contrario di quella di Dalton. In una scena interviene il suo amico Cliff Booth ad aiutarlo, ricordandogli chi è.

Questa battuta a quanto pare è stata inserita dallo stesso Brad Pitt (interprete di Booth) sulla base di un’esperienza da lui vissuta davvero:

L’attore ha raccontato che una volta su un set negli anni ’90 si trovava in un momento particolarmente difficile, si lamentava e non era contento, quando un ragazzo gli si avvicinò e gli disse “Alza la testa e smetti di lamentarti. Sei Brad Pitt, cazzo! Magari fossi io Brad Pitt, cazzo!”

Pitt ha detto che la cosa lo aiutò tantissimo, e mentre giravano C’era una volta a… Hollywood, nel momento in cui Leonardo DiCaprio/Rick Dalton si avvia verso il set in preda all’hangover, gli è tornata in mente e gli è sembrata perfetta per l’occasione.

A Quentin Tarantino – che solitamente non ama le improvvisazioni – la battuta è piaciuta così tanto che è stata poi inserita addirittura in tutti i trailer ufficiali del film.

– Da Cinefacts.it

Cosa ci mostra C’era una volta a Hollywood.

Ciò dimostra quanto fragile e delicato possa essere questo mestiere e, ci insegna il film, anche complesso. Nonostante nel nostro immaginario gli attori godano di beni di lusso e di una vita spensierata, non è tutto qui. Si tratta infatti di un lavoro controverso, per certi versi più particolare di altri in quanto sottopone la persona ad una costante autocritica e sperimentazione. Non a caso l’attore lavora sul personaggio, ma anche e soprattutto su se stesso, come mostrano i due scritti più famosi di Stanislavskij.

Uno dei pregi principali del film, a parte la “vendetta” che attua nel finale verso gli assassini di Sharon Tate, è l’intenzione di parlare del mondo del cinema, portando la gente proprio al cinema. Lo spettatore vede degli attori interpretare attori e (l’improvvisazione di Brad Pitt lo prova) attingere per i propri personaggi anche alla loro difficile, ma pur sempre bellissima, esperienza nel lavoro della recitazione.

Leggi anche: Pulp Fiction: il film di Tarantino diventa un Cult

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Silvia Argento

Nata ad Agrigento nel 1997, ha conseguito una laurea triennale in Lettere Moderne, una magistrale in Filologia Moderna e Italianistica e una seconda magistrale in Editoria e scrittura, un master in giornalismo. È docente di letteratura italiana e latina, scrittrice e redattrice per giornali, riviste e siti di divulgazione culturale e critica musicale. È autrice di un saggio su Oscar Wilde e della raccolta di racconti «Dipinti, brevi storie di fragilità».

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