David Lachapelle e la grande piaga degli anni 80 dell’HIV
Perché nasce un grande artista: David Lachapelle e la piaga dell’HIV. Era da alcuni anni che non lo rincontravo: dai tempi della sua grande mostra antologica al Rudolfinium di Praga, dove mi trovavo per l’Istituto di Cultura dell’Ambasciata italiana essendo stato ivi invitato come ospite e relatore. Devo riconoscere che il David Lachapelle (con me […]
Perché nasce un grande artista: David Lachapelle e la piaga dell’HIV.
Era da alcuni anni che non lo rincontravo: dai tempi della sua grande mostra antologica al Rudolfinium di Praga, dove mi trovavo per l’Istituto di Cultura dell’Ambasciata italiana essendo stato ivi invitato come ospite e relatore. Devo riconoscere che il David Lachapelle (con me nell’immagine) che ho ritrovato all’opening della sua Mostra alla Reggia di Venaria che si protrarrà fino a fine 2019, incentrata sull’evoluzione della sua Arte negli ultimi 15 anni, non ha tradito i propri “fondamentali” artistici, anzi: li ha sviluppati in senso ancor più drammatico ma, al tempo stesso, con maggior serenità di accettazione “dell’incombente”.
David Lachapelle e Paolo Turati all’opening della Mostra del Maestro canadese “Atti divini” curata da Denis Curti e Rainer Opoku alla Citroniera della Reggia di Venaria. Dalle sue parole a margine dell’inaugurazione della Mostra, certamente la più bella di Arte Contemporanea organizzata in Piemonte degli ultimi anni, mi sono rimaste memorizzate alcune frasi molto significative. La prima: “sin da ragazzino, quando ho capito che il futuro che aspetta tutti gli uomini è il lavoro, ho deciso che il mio sarebbe stato quello di rappresentare il mio sentire”.
David Lachapelle. Già qui si ravvisa come l’artista sia davvero in genere un “predestinato”, uno che ha contezza dei propri mezzi e che intende padroneggiarli per poter comunicare in modo codificato con “gli altri” (si pensi a Picasso che osservava come “sin da bambino sapevo disegnare come Raffaello ma ho messo una vita per rimparare a disegnare come un bambino”).
La seconda: “ad un certo punto, negli Anni 80, ho iniziato a chiedermi dove “il bello” andasse a finire”. Si riferiva ad un ragazzo 23nne, magnifico ballerino una settimana prima e in pochi giorni ‘trasformato in un vecchietto’. Era la tragedia dell’Aids, che David Lachapelle sentì fortemente, inserito com’era nella Comunità Gay newyorkese di cui Warhol era uno dei fari culturali di cui il Nostro si era illuminato. In poco tempo morirono Haring, Basquiat, così come altrove la grande piaga s’era pure portata via altri grandi artisti (assieme ad una moltitudine di persone) come Nureyev o Mercury. “Perché io sono sopravvissuto? Credevo che in breve sarei morto anch’io e invece no!” In queste parole forse si ravvisa il motivo per cui è l’indeterminismo consapevole che porta a far crescere una persona, artista o meno che sia.
Essere quello che si lascia, non quello che si ha. E, allora, ecco i Capolavori che prendono forma nella mente del Maestro d’Arte ma anche di pensiero, fra tormento ed estasi. Nella fattispecie della Mostra di Venaria ecco dunque “Deluge”, “Cathedral” e “Rape of Africa”, tre fondamentali “lachapelliani”, ma non solo: l’immaginifico organizzato sui set delle opere più recenti (ché Lachapelle non fotografa il momento, ma lo costruisce) si evolve verso stilemi di forza ulteriore, quasi che i colori e il paesaggio generino in alcuni casi contesti addirittura fantasy, da “Granburrone”, che mi piace, appunto, pensare siano financo subliminalmente tolkeniani.
Si confida che questa Mostra contribuisca a rivalutare degnamente anche sul Mercato dell’Arte il valore delle stampe (perfettamente eseguite) del fotografo canadese, piuttosto neglette, chissà perché; forse per sovraproduzione ovvero per difficoltà di inserimento in contasti di arredo…invero, non è semplicissimo decidere di appendere alle pareti della propria sala da pranzo “Deluge”, specie se si sa che si potrebbero avere ospiti di una certa età magari un po’ bacchettoni. Ve lo garantisco.
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