A cura di Mariaimma Gozzi
Salti di quota, equilibri precari, vuoti e sospensioni…
Spazi simbolici condensati in una intenzione e propensione capace di rendere visibile il non visibile.
Corpi e gambe esili, allungati, apparentemente fragili.
Volti anonimi, privi di dettagli eppure talmente intensi da percepirne la mira, il paradosso, l’assoluto. L’espressione affiorante, elegante e discreta, svela la natura riflessiva, introspettiva e melanconica dei protagonisti. Forse siamo noi… anzi, siamo proprio noi!
Specchiarsi nelle sculture di Pinna è possibile solo se non temi l'”altezza”, solo se desideri misurare pensieri e circostanze e celebrarli in solitudine come un’eremita.
Analizzando alcune ragioni della scultura dell’artista, essa trova nell’essenziale e nel minimalismo la più elevata corrispondenza, difatti è annullando il superfluo che si accede all’essenza delle cose, all’interiorità dell’essere. Per certi versi è un percorso affine al grande scultore A. Giacometti, non solo per le sembianze delle sculture, quanto per la suggestione filosofica di cui Pinna s’invaghisce riuscendo a concentrarne il potere evocativo; così come Giacometti, Pinna incarna e umanizza a tuttotondo il desiderio, l’aspirazione, il gesto.
Si palesa la condizione di sfida -prima di tutti con se stessi- si coglie il dinamismo mentale, in un corpo in movimento o in stasi, intento a contemplare spunti d’osservazione inediti, fughe e orizzonti su cui salire per perdersi come un contemporaneo Viandante sul mare di nebbia di Friedrich. E ritornando sulla sintesi della forma i volumi delle teste e dei volti delle sculture di Pinna ci fanno tornare in mente il raffinatissimo Brancusi; quei lineamenti tutti uguali e quindi negati, sottratti alla unicità, da cui emerge irrimediabilmente il “vero”, pronti come sono a tradire un’emozione e a trasmetterla inequivocabilmente. Torna quell’eco primitivo tra ‘800 e ‘900 di Rodin, Picasso, Ernest e Modigliani, come un’anomalia, come un riverbero colto; ma l’esemplificazione della figura umana sulla scia di una contaminazione, nelle sculture di Pinna, non solo fa da ponte tra antico e contemporaneo, piuttosto esige una lettura meno ancestrale/istintuale e più razionale.
Infatti quei corpi hanno gambe lunghissime perché volontariamente prendono le distanze dal suolo così come dal resto del mondo -gesto e forma necessitante a Dalì nella scultura in bronzo l’“Elefante Spaziale”, ove le gambe esili si allungano ed entrano in una nuova dimensione che collega cielo e terra-. Ecco, l’indagine di Pinna desidera l’estensione, l’assenza di peso gravitazionale, e ce lo dimostra chiaramente con gli omini seduti sul trampolino sospesi nel nulla, o quando sono costituiti di corda ovvero della stessa materia che li fa pendere o arrampicare.
Si tratta di una consapevolezza volta a comunicare la vertigine di volare e l’inquietudine folgorante. L’uomo che si tende e si estende, come un arco, sappiamo bene che si specchia nella fessura dell’universo perché di esso n’è parte. Sono segni primigeni di cui non abbiamo perso traccia e non sono di certo astratti. In conclusione, l’indagine di Alex Pinna si narra perfettamente attraverso l’eloquenza di un’affermazione di C. Brancusi “Folli sono quelli che considerano le mie sculture astratte. Ciò che essi credono essere astratto è quanto vi è di più reale, […] l’essenza dei fenomeni”.
SaracenoArtgallery, Roma
9 marzo | 23 aprile 2022
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