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Sottopelle: Paolo Sollazzo

Paolo Sollazzo
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Intervista a Paolo Sollazzo.

Benvenuto Paolo Sollazzo, grazie di avere accettato la mia intervista. E’ un autentico piacere conoscere il suo lavoro dal suo punto d’osservazione.

L’arte fotografica le ha permesso di esprimere le emozioni e di suscitarle, di avvicinarsi a culture extraeuropee e documentarle, narrarle. In modo filosofico, come un antropologo dell’inconscio, lei riesce a far affiorare e comunicare l’immateriale. Ma catturare l’immateriale equivale a trasformare il non-visibile in visibile, la trascendenza in infinito.

Come si prepara Paolo Sollazzo prima di affrontare un viaggio e come riesce a stabilire il rapporto empatico con i suoi personaggi e soggetti?

Il viaggio è uno stato d’animo. Si è privi di ogni legame, anche sentirsi soli.

Senza nessuno ostacolo nel nuovo mondo visibile, senza un mondo anteriore ad interporsi.
Solo inclinazioni emotive, dopo una lunga attenta ricerca. Cercando di vivere questa parentesi, anche per distrarre il destino. Un’analisi interiore, con tutto ciò che essa può determinare, che torna dalla vita pensata, ora reale. Nel viaggio sono avvolto da una dolcezza appena sopportabile. Gente che incontro d’istinto assorbe il mio calore. Sono occhi che si guardano, non solo immagini da sfogliare. Giungono note profonde, anche smisurati silenzi. Aprirsi alla vita, senza separazioni. Una ricerca nell’anima, come in una scia, solcata da un moto di vitale tensione e un’eterna ribellione.

Quando ci si immerge nelle sue opere, i luoghi divengono non-luoghi, le forme si comportano come sculture liquide che non esistono in natura e si stagliano su scenari desueti, astratti, onirici, come atmosfere che mappano il vago focalizzando l’immagine fotografica sull’evoluzione espressiva.

L’essenza della sua fotografia è immortalare il transitorio?

Nulla di transitorio, solo ritrovare ciò che è nato con me.

Senza stupirsi dei cambiamenti che avvengono, che spesso nascono anche da vibrazioni sconosciute. Tante le impressioni, come sembra di respirare per la prima volta. Giorni e notti con sentimenti anche estremi e contrapposti. In fuga da situazioni definitive e irrevocabili. Una sensibilità che mi ha fatto soffrire in passato, ora mi diventa amica. Mentre l’istinto e la ragione continuano a combattersi.

L’astrazione delle immagini del suo lavoro Sottopelle (esposte in Gallerja) riescono ad insinuarsi nella percezione emozionale; la complessità di scrivere con la luce in modo non convenzionale e non iconico, in antitesi con i dettami accademici, abbatte definitivamente quegli steccati fra pittura e fotografia.

Ma, quanto della fotografia di Paolo Sollazzo è compenetrata dalla cultura pittorica?

Solo una luce che risplende interiormente diventa importante.

Quando nei miei pensieri sento giungere il respiro di spazi sterminati, e sto solo camminando in una strada. Tra la gente. Scopro la perturbabilità delle emozioni. Vivo di ciò che incontro, lungo il cammino. Sfioro solo la pelle delle donne… senza i loro corpi. Sarebbero di troppo. Ci separerebbero. Ciò che accade somiglia ad una tregua che diventa come impeto di onde.

Astrazione, immateriale, pittura; v’è una fotografia (in particolare fra le 14 esposte in Gallerja) sintesi perfetta dei tre elementi. La luce bianca, abbagliante, incorniciata dall’indaco del velo di una donna che ritaglia l’essenza e non l’assenza di un volto. Ella sembra voglia indurci ad una reflexio carica di significante simbolismo, avvicinando quella natura immateriale, ultraterrena, più di tante altre opere d’arte pittorica, alla concezione spirituale dell’essere.

Ma, il volto inesistente mi fa altresì pensare alla violenza che cancella l’identità e cela i segni nell’intimità del velo. L’arte ha restituito alla donna il valore che la società le ha tolto.

La sua fotografia di quale luce desidera illuminarla?

La luce ad illuminare, l’assenza di quel volto è la profondità: come la calma del vento che insegue la tempesta.

Malgrado ciò, nel suo viso, vedo anche i suoi occhi di oro pallido, a cui il mio cuore non sa resistere. L’esatto profilo del sole in ogni calore, anche nelle ombre: come bagliori di felicità. L’emersione di un dolore che scompare è immagine, mai un punto di fuga più lontano.

Nell’armonia compositiva delle sue opere, sorprende come ogni singolo dettaglio sembri avere una vitalità propria, mutante. Nulla é statico, nulla è quiete, ciò muove ansie impastate di attesa e trepidazione. La sua esplorazione si estrinseca e spinge verso il dinamismo.

Quale processo la conduce a ri-generare il movimento?

Ogni scatto, anche se fuggente, lo sento benevolo nei miei occhi.

Come la luce di un cieco a cui, d’improvviso, torna la vista. Quando sono lontano, molto lontano, le inquietudini che scuotono le genti e le fanno cadere in polvere, qui vagano. Per me si rigenera una corrente, un movimento senza un’illusione. Legati e uniti da nulla. Un cuore libero con una libertà sognata, che ora scopro nelle ore e nel tempo reale.

Il nomadismo dell’animo è la caratteristica necessaria di alcune scelte di vita. Lei ha lavorato anche come fotoreporter documentaristico quindi conosce sulla pelle il nomadismo, questo pregresso l’ha aiutata ad esprimere il dialogo esclusivo fra il suo “obiettivo” e la sua “coscienza” o forse l’ha condizionata?

Io mi sento un rifugiato tra due nulla, anche in un infinito spazio limitato, ma capace di sfuggire alla catastrofe.

Il mio petto si dilata, ascolto i battiti del mio cuore. Mi rigenero con sensazioni prima ignote che mi invadono, dominando uno stato di semi incoscienza. Non penso mai di aver catturato un tempo unico. Un tempo senza avvenire. Solo un eterno presente, che mi permette di muovermi nelle mie emozioni. Con il desiderio di non spiegare molto a chi guarderà, al mio ritorno, le immagini. Ora l’esperienza appartiene al passato.

Ho letto che l’incontro con David Alan Harvey, il grande fotografo americano che ha incarnato per anni lo spirito di National Geographic, è stato determinante.

In che modo ha influenzato la sua personalità? E qual è stato lo scatto che l’ha sedotto?

David. Un artista che mi ha fatto comprendere che si può tutto abbandonare.

Che si deve parlare non per le parole, ma ascoltare solo quello che le parole scavano in una intimità profonda. Mi ha trasmesso entusiasmo. Una giovane fresca felicità. Mi ha restituito una profonda ingenuità. In particolare di lui ho amato le foto fatte a Ibiza in una discoteca, e a Cuba.

Lo scrittore e poeta René Karl Rilke scrive: “Le opere d’arte sono di una solitudine infinita, e nulla può raggiungerle meno della critica”. Considerazione di cui si potrebbe disquisire ad libitum; ma la cesura fra l’uomo e l’opera è data anche dalla migrazione, ovvero da una vita propria di cui l’opera d’arte non può fare a meno. Nell’arte fotografica il distacco appare più audace, sicuramente per la possibilità di riprodurre l’immagine.

Come vive la migrazione delle sue opere?

La migrazione la vivo con il randagio dei miei sentimenti.

Quando le emozioni circolano fra loro. Come una carezza alla mano, quando allarghi una ad una le dita. Quando non sei triste. Quando scopri un’avventura che sai non avrà mai fine. Quando strappi al destino quello che non ti era riservato. Quando ti perdoni, a forza d’amore per la vita. Quando, trasognato, insegui una visione. Quando sei in giro per giorni, senza sapere dove andare e come tornare indietro. Quando ti scopri attraverso te e le tue immagini. Il distacco dalle proprie opere dovrebbe essere una condizione naturale per ogni artista.

“Alla definitezza di un oggetto viene sostituita la più ampia definitezza di un campo di possibilità interpretative”. Concetto che approfondisce Umberto eco nel saggio Opera Aperta (1962). Ripreso poi da Roland Barthes tra testi leggibili e scrivibili, trattati nel saggio La morte dell’autore (1967). Ognuno di noi interpreta l’opera bypassando l’indicazione dell’artista.

Quanto si lascia sorprendere dai significati che gli altri attribuiscono alle sue fotografie?

A sorprendermi sono gli interrogativi che mi pongono, e, con minor forza, spiegare cosa mi ha catturato di quella immagine. Rispondo ad entrambi: come una stella dimenticata in un angolo di cielo, si spegne.
Ti accorgi è giunta l’alba.

Nell’astrazione espressiva delle sue immagini magistralmente s’insinuano spunti prospettici come appigli visibili necessitanti all’occhio e forme dal connotato vagamente figurativo; in questo modo s’afferrano intriganti percorsi, autentici o illusori, orizzonti sfuggenti alla foga della corsa di donne; la ritualità delle abluzioni corali; il paesaggio coloratissimo metropolitano o la natura vegetale esile, filiforme.

Ritiene che il suo lavoro possa diventare un nuovo genere?

No. Non ho mai pensato che il mio lavoro possa diventare un genere.

Per me sono solo lampade che accendo, sfumando le figure, con poca evidenza. Poi, l’immagine si compone. Non conto nessuna assenza. Quando mi sveglio al mattino in una qualsiasi città del mondo… mi sento un uomo libero e felice.

Nelle sue opere si addensano colori vibranti dai toni brillanti e decisi. A volte sembrano evocare la soavità dell’impressionismo altre l’estremismo dell’Espressionismo sfociando anche nel Pop. Sono caratteristiche decisamente in contrasto, come un ossimoro visivo.

Qual è la matrice di questa dialettica cromatica?

Non una matrice, diventerebbe un ostacolo.

E’ solo un calore invadente, che distende l’atmosfera. Come se ogni sguardo attraversi delle “finestre” su nuvole percorse da lampi. Con tanti nuovi desideri a manifestarsi. Si prolungano nei silenzi attenti. Io amo la vita della fotografia. Amo le mie energie nel mondo esterno che vado a cercare, scegliendo ogni volta piste personali.

L’imperativo dell’arte fotografica è hic et nunc, il suo qui e ora si dilata, diviene atemporale; ci offre squarci visivi e scenari immaginativi; ci narra il fascino di terre lontane coi suoi vividi colori, le sue fragranze e ritmi musicali.

Lei associa mai i suoi scatti al profumo, alla musica, alla letteratura di un popolo?

Associo molto i miei scatti al profumo, alla musica, alla letteratura, conoscenza di un popolo che vado a raggiungere.

Il viaggio non è la partenza, il decollo di un volo. Si prendono appunti per mesi. Solo quando, e se, giunge un preciso riassunto, si comincia a pensare a tutto l’aspetto tecnico-logistico del progetto. A volte, il solo entusiasmo tesse la sua rete di illusioni, annega i dubbi, sormonta le difficoltà.

Jan Saudek nella sua provocatoria fotografia carpisce la bellezza dell’imperfezione creando un effetto inquietante e audace del corpo con una visione simbolista, paradossale.

Che cos’è per lei l’imperfezione?

Ed è ancora attuale l’idea che abbiamo dello strumento fotografico che possiede la capacità di rendere fotogenico il soggetto cogliendo la bellezza estetica già presente in esso?

Sono sufficienti ancora solo labbra sensibili.

Nello spirito e, nella carne, nulla. Memoria è l’impronta di quanto è già stato ripreso. Con il cuore, che non riesce a distaccarsene. Poi l’imperfezione è nella mia natura… con distese infinite. Giorni scomposti. Giorni ricomposti, senza allucinazioni. Non è vivere per nulla. Per me l’imperfezione sta nella perfezione che gli attuali mezzi per fotografare offrono a dismisura e che io rifiuto e da cui rifuggo.

Gli artisti del Surrealismo sperimentano nuovi modi per esprimere la fantasia, il subconscio, e utilizzano la fotografia per spingere la realtà oltre i propri limiti. Tra i più noti Andre Kertész, Bill Brandt, Herbert List, P. Horst, René Magritte. Artisti legati al bianco e nero prima per necessità poi per scelta.

Paolo Sollazzo, a lei piace la fotografia bianco e nero?

La scomparsa dei colori come lanterne estinte che indicano un’assenza, una fuga dalla vita reale.

Solo il bianco e nero sono come un segno di lutto, con l’immagine in un centro troppo pieno con attorno un vuoto. I colori rendono un posto affollato, pieno di nuova vita. Nasce l’immaginazione anche sotto la pioggia che scende dal cielo, che smette di essere timida, e produce coreografia.

Il bianco e nero somiglia a rari alberi spenti che gocciolano dai rami su canali al buio, capaci solo di allungare un profilo di malinconia e solitudine.

Mutila il carattere dell’immagine, poiché la vera vita è colore e natura.

Il bianco e nero non ne prende parte. Sogno, vivo e fotografo un mondo di luce e colore. I colori sono fate che mi fanno visita, sono cieli che si impossessano di me con promesse incantevoli.

Il bianco e nero è sabbia invasa dai ghiacci, che ridesta debolezze, malinconie e nasconde difetti. Io della fotografia amo tutto, in misura minore il bianco e nero, le sale di posa, le foto sportive e di matrimoni, lo still life, e anche le camere oscure che utilizzavo agli inizi. La fotografia è al pari dell’Universo. Con infinite sfaccettature tra le quali sceglierne una per un proprio personale percorso.

Ray K. Metzker scrive: “I fotografi sono vittime di un grande paradosso seguono l’impermanente per renderlo permanente”. Mi viene da pensare che sono vittime anche degli artisti in quanto: Land art, Body art, Happening, Language art, Narrative art, Video art sono movimenti di cui la fotografia è il mezzo di comunicazione essenziale. Il diaframma frapposto fra percezione e rappresentazione più diretta della natura.

Secondo lei la fotografia riesce a dare misura di opere colossali ad esempio come quelle dello scultore bulgaro Christo Javachev o può solo documentarla?

Non so se riuscirà a dare misura di opere colossali come quelle dell’artista Christo ma so che a me interessano le immagini e quindi le opere che restano nel tempo.

“You press the button, we do the rest” era lo slogan che accompagnava il lancio della Kodak, la piccola scatola con un obiettivo a fuoco fisso (57 mm f/9), caricata in fabbrica con una pellicola fotografica sufficiente per cento scatti. Io la ricordo ancora con grande piacere.

Il suo primo approccio con lo strumento fotografico è stato divertente?

Si, il mio primo rapporto con la fotografia è iniziato come un gioco.

Paolo Sollazzo la sua carriera è davvero brillante:
Collabora con RAI, RCS e MONDADORI per la realizzazione di reportage fotografici a New York, Miami, Managua, Nicaragua, Costarica e Honduras dove approda alla fotografia d’arte. Fondamentale nel 2007 l’incontro con il fotografo David Alan Harvey, dell’Agenzia Magnum.

Nel 2015 pubblica il libro fotografico DISSOLVENZE – Edizione Graffiti – vince il primo premio Gold del Concorso TIFA 2016 (Tokyo International Foto Awards), il secondo premio del MIFA 2016 (Moscow International Foto Awards), e l’Honorable Mention dell’IPA 2016 (International Photo Awards). La mostra fotografica relativa al libro è esposta presso la Galleria SMAC di Roma e a Gerusalemme nel Centro Culturale Dar Issaf Nashashibi For Culture, Arts & Literature.

Con Mongolia – Taccuino di silenzi nel 2016 aggiunge al novero dei premi il Primo premio Gold del PX3 2017 (Prix de la Photographie Paris), una selezione di foto tratte dal libro viene esposta presso la Galleria SMAC e nel Salone delle Scienze del Museo delle Civiltà – Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma.

Con il suo ultimo libro fotografico, sempre Edizione Graffiti, con cui collabora dal 2014, si aggiudica il premio SILVER del MIFA 2018 – Moscow International Foto Awards, Categoria Documentary e il premio BRONZE del MIFA 2018 – Moscow International Foto Awards Categoria Fine-Art come miglior libro fotografico.

Non c’è bisogno di commentare la sua ricerca.

Per concludere la nostra intervista le pongo una domanda più che mai banale: c’è un desiderio professionale che non ha ancora realizzato?

Visitare e fotografare, ovviamente con il mio linguaggio, tutti i paesi del mondo che ancora non ho raggiunto con una sequenzialità derivata da un’attenta scelta.

Grazie Mariaimma per questa opportunità.

SOTTOPELLE | PAOLO SOLLAZZO
Gallerja
Via della Lupa – Roma
dal 12 giugno al 21 settembre

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Mariaimma Gozzi

Mariaimma Gozzi è un critico d'arte di raffinato senso estetico. Elegante ed estroverso il linguaggio che la contraddistingue nell'indagine concentrata sul mondo dell'Arte Contemporanea. Eclettica e sensibile vive a stretto contatto con gli artisti nei loro studi in modo da conoscere sin dalla fase embrionale il processo creativo che risiede nell'opera d'arte. Autrice di numerosi articoli, testi critici e interviste a personaggi di spicco dell'arte, della cultura e della politica per la Rivisita d'Arte, Cultura e Scienza EQUIPèCO, per Il PROGRESSO Magazine e per la rivista MONDO ARTE. Numerose sono le Curatele di Mostre in Italia e all'Estero e di curatele per Gallerie prestigiose e di peso internazionale. Inizialmente intraprende una carriera votata all’architettura, in cui determinate è la vicinanza allo zio - l' ingegnere Barnaba Gozzi - edificante modello di professionalità, già Cavaliere del Lavoro. La personalità ecclettica la conduce a viaggiare per lavoro e a frequentare l'ambiente culturale europeo del teatro, della letteratura, della musica e dell'arte sviluppando proprio verso quest'ultima una passione esclusiva. Preziosa è la formazione all’Accademia Belle Arti di Roma; allieva di docenti protagonisti dell’arte del ‘900: Maria Teresa Benedetti, Giovanna Dalla Chiesa, Armando Nobili, Francesco Cosentino. E più avanti nel tempo emerge irruente la passione in particolare per la Storia dell’Arte, approfondisce gli studi frequentando la facoltà di Storia dell’Arte all’Ateneo di Tor Vergata, conseguendo la Laurea Magistrale. Allieva di docenti protagonisti dell’arte del XXI sec.: Barbara Agosti, Maria Beltramini, Simonetta Prosperi Valenti, Franco Gallo; Attualmente vive a Roma. Formazione : Università Tor Vergata, Roma - Laurea Magistrale di Storia dell’Arte Accademia Belle Arti di Roma - Laurea di Scenografia Liceo Artistico - Roma Contatti : e-mail : [email protected] Sito Uff. : www.mariaimmagozzi.it

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