Marco Gottardi: intervista all’autore del romanzo Testamento
Marco Gottardi è stato uno scrittore anche nelle sue vite precedenti. Marco Gottardi è uno scrittore, critico letterario, caporedattore presso Edizioni Chartesia di Treviso, il cui interesse per la letteratura si è manifestato fin dalla tenera età. Lo ha coltivato per tutta la vita, conseguendo una laurea cum laude in Lettere e in Filologia e […]
Marco Gottardi è stato uno scrittore anche nelle sue vite precedenti.
Marco Gottardi è uno scrittore, critico letterario, caporedattore presso Edizioni Chartesia di Treviso, il cui interesse per la letteratura si è manifestato fin dalla tenera età. Lo ha coltivato per tutta la vita, conseguendo una laurea cum laude in Lettere e in Filologia e Letteratura Italiana Medievale e Umanistica.
Marco Gottardi è uno scrittore versatile e assai eclettico, che ha con il tempo maturato una grande capacità di passare da una forma di scrittura all’altra. Infatti, ha esordito nel 2002 con una raccolta di poesie, ma ormai è dal 2017 che si dedica a romanzi. Il primo, Il curioso caso del signor G è uscito proprio nel 2017 e a Gennaio del 2019 è uscito Testamento, un lavoro introspettivo e dalla matrice filosofica, ma adatto anche ai più giovani.
Marco Gottardi, la scrittura sembra aver attraversato tutta la sua vita fin dall’inizio. Da cosa nasce questa volontà di raccontare?
Non lo so. Quando ero in terza elementare, la maestra mi aveva soprannominato “lo Scrittore” perché, a differenza degli altri bambini, quando c’era da scrivere i pensierini (allora si chiamavano così, quella specie di esercitazioni alla scrittura che si facevano per imparare le parole) io riempivo pagine su pagine di quaderno e non accennavo a fermarmi.
E mi riuscivano pure bene. D’estate, quando non c’era la scuola, giocavo con la vecchia Olivetti di mio padre (una macchina da scrivere degli anni Sessanta che pesava una tonnellata) immaginando di essere uno scrittore alle prese con un grosso libro da ultimare.
È sempre stato così, forse sono stato uno scrittore anche nelle vite precedenti e semplicemente continuo a fare ciò che ho sempre fatto. Per me non è nemmeno una volontà, è qualcosa di naturale e per questo tremendamente vitale, è come respirare o mangiare: non posso fare a meno di scrivere. Se per qualche ragione la vita mi costringesse a smettere, morirei.
La sua passione per la letteratura si è tradotta nel lavoro di critico e di recensore. Quali sono i suoi autori preferiti, i primi libri che ricorda l’hanno spinta a parlare di letteratura?
Se devo essere sincero, quasi tutti i libri che ho dovuto recensire erano pessimi. Ciò non significa che leggerli sia stata un’esperienza inutile: mi hanno aiutato (ma probabilmente già lo sapevo, visto che il mio gusto personale si era concesso il lusso di giudicare) a capire esattamente come non dovevo scrivere.
Del resto, sono un lettore difficile, pretendo molto da un libro, forse perché leggo da scrittore e ho sempre il desiderio e l’esigenza di imparare qualcosa da ogni mia lettura, qualcosa di utile, intendo, per la mia attività di scrittore.
Su questo versante devo dire che sono stati decisivi per la mia formazione pochi ma fondamentali autori, dei mostri sacri, ovviamente, che ad oggi restano i miei scrittori preferiti: Wilde e Nabokov per la loro eleganza, Faulkner (uno quadrato, uno che ti prende a schiaffi, e questo mi piace), Cortazar per la sua malinconia, Henry Miller per la sua follia, ma soprattutto Juan Carlos Onetti, forse lo scrittore che amo più di tutti per quella sua capacità di dare concretezza, direi quasi fisicità, a sentimenti e pensieri; è un vero maestro di stile per me.
Concettualmente sono molto legato a Cioran, è un filosofo di origini rumene del quale ho ripreso diverse idee nei miei libri. Ce ne sono altri, naturalmente, non molti però: come ho detto, sono di gusti difficili e quando hai letto i migliori è difficile accontentarsi.
Nella sua carriera ha esordito con una raccolta di poesie, per poi pubblicare altre tre sillogi poetiche e anche saggistica e romanzi. Sicuramente questa è una grande prova di eclettismo. In quale forma di scrittura tra queste trova di più se stesso?
Escludendo la saggistica, che è un po’ troppo fredda per me, direi che ho maturato un’idea e una forma di narrativa che mi ha consentito di abbandonare per sempre i versi (non so, invece, se si possa smettere di essere poeti) pur continuando ad essere, in qualche misura, poetico, senza smettere, cioè, di comunicare, anche in prosa, le stesse emozioni e le stesse profondità che un tempo ritenevo esclusive della poesia.
Intendo la letteratura e la narrativa in senso ampio e piuttosto libero, poesia e prosa possono avvicinarsi molto e addirittura convivere (come nel mio ultimo romanzo, Testamento), non credo troppo nei limiti e nelle distinzioni (nel Medioevo, per esempio, i romanzi erano scritti in versi, e anche i poemetti didascalici), sono più guidato da un’idea di stile, che è diverso. Lo stile è la vera anima di uno scrittore, che egli scriva poesie o romanzi. Ed è la sola cosa che conta per me.
Parliamo del suo ultimo romanzo. Ha spiegato che il “Testamento” del titolo non riguarda le ultime volontà, ma le ultime cose da dire e da spiegare. Quali sarebbero le cose più importanti che Marco Gottardi vorrebbe dire, di cui vorrebbe parlare prima di un addio?
Questa è una bellissima domanda! Credo che le cose importanti debbano essere dette con i fatti, con la vita, prima che attraverso la letteratura. E credo si debba farlo per tempo, senza aspettare l’ultimo istante o l’occasione offerta da un addio. Si può morire semplicemente con un sorriso, in silenzio, quando si sono dette, anzi, fatte, le cose importanti.
E non si può morire, non si può dire un solo addio senza aver vissuto e senza aver parlato della vita. Nei miei libri è sempre la vita (non l’esistere, il vivere, si badi bene, la vita intesa nella sua purezza concettuale liberata dalle contingenze) al centro di tutto, e quando si parla della vita si parla di tutto: dell’amore, della morte, dell’amicizia, dell’arte, di un senso da trovare o respingere, dell’universo e dei sogni, delle paure e delle speranze.
Dire addio non è mai semplice. Esistono vari tipi di addii, alle persone, alle cose, perfino a una parte di se stessi. Ha mai dovuto dire addio a qualcosa con grande difficoltà?
Gli addii fanno parte della vita, e spesso sono pure necessari, benefici in un percorso di crescita personale. Si deve solo imparare a metabolizzarli. È come quando finisci un capitolo di un libro e passi al successivo. Il libro continua fino all’ultima pagina, niente panico.
L’unico addio che non potrei mai accettare e che ritengo il più grave dei mali è quello a se stessi, e non intendo quello decretato dalla morte, mi riferisco ai tanti addii con i quali molte persone rinunciano a essere loro stesse, rinunciano alla propria identità, alle proprie idee e ai propri sogni. Per comodità o per vigliaccheria. È l’alienazione del sé, la sconfitta dell’essere umano e della libertà individuale. A me stesso non potrei mai rinunciare.
Il romanzo ha la caratteristica originale di presentare più storie, più narratori, e anche delle poesie inedite. Sembra che la contaminazione di generi e forme sia un tratto stilistico che le appartiene molto. Ad oggi si dice, purtroppo, che la poesia sia morta, quindi inserirla in un romanzo è un atto di coraggio. Qual è la sua opinione a riguardo?
Sono d’accordo, la poesia è morta. La vera poesia, intendo. Non leggo più poesie, quel poco che si pubblica oggi mi fa accapponare la pelle. Per quanto mi riguarda, me la sono cavata perché nel romanzo è il protagonista a scrivere poesie, non io. Sono sgravato da ogni responsabilità.
Lorenzo, all’inizio, è un sognatore e la poesia è espressione della sua interiorità e delle sue aspirazioni, ma essa diventa poi anche lo specchio dei suoi disagi e del suo malessere esistenziale e l’inserimento nel libro di testi poetici è stato estremamente funzionale per far comprendere meglio al lettore l’evoluzione del personaggio. Alla stessa stregua del doppio narratore: dare voce in prima persona a Lorenzo mi ha permesso di conferire maggiore spessore psicologico alla sua figura.
Poi è chiaro, non serve che lo confessi: quelle poesie sono mie, vecchie poesie inedite che avevo organizzato in una raccolta che non pubblicherò mai. Ecco, più che un atto di coraggio è stato un atto di viltà, il mio addio definitivo alla poesia messo in mano a qualcun altro.
A proposito di “Testamento” ha spiegato che è adatto ad un pubblico giovane, ma che bisogna possedere una certa cultura filosofica per comprenderlo. Qual è la filosofia che sta alla base di questo romanzo, il filosofo che più lo rappresenta?
Ho fatto prima il nome di Cioran, che cito anche nell’esergo alla seconda parte del romanzo: ho tutti i suoi libri. In Testamento, esistenzialismo e nichilismo hanno un peso importante, ma poi ci metto del mio e ognuno ci può trovare quello che vuole.
Per esempio, Alessia Ortenzio, la filosofa che mi accompagna nel tour di presentazioni, sostiene che con Testamento sono riuscito a rendere “domestico” Schopenhauer, solo che io non ho mai letto Schopenhauer! I miei sono libri di testa (oltre che di cuore), ruotano sempre intorno al senso della vita ma attraverso una rappresentazione molto narrativa della quale si può godere anche senza essere filosofi o avere studiato filosofia. Non è importante capire tutto, tanto meno uno scrittore. E in fondo a me non interessa per nulla essere capito.
Non si può negare che il mondo della cultura stia vivendo un periodo difficile. Che cosa possiamo fare secondo lei per limitare i danni, in cosa soprattutto riviste e giornali dovrebbero innovarsi?
Si ripete spesso il mantra della cultura in crisi e anche quello opposto che la cultura è un valore fondamentale, che il nostro Paese potrebbe (o dovrebbe) vivere di cultura… La cultura è uno strumento imprescindibile, si dice che è il cibo della mente, e come si fa a vivere senza cibo?
Tutti, in fondo, hanno un po’ di cultura e si può dire che dall’homo sapiens in poi la cultura ci sia sempre stata. È un segno di civiltà. Ci si dovrebbe interrogare, più che altro, sui modi di proporla (ma anche sui contenuti: se penso a quanti libri-spazzatura vengono pubblicati da grossi editori e vendono centinaia di migliaia di copie mi viene voglia di gettare la penna).
Se molti giovani, e anche non giovani, non sono interessati alla cultura è perché essa non offre molte attrattive (o perché, semplicemente, non hanno ricevuto un’adeguata educazione), non c’è da biasimare nessuno: è più divertente una bicchierata tra amici che I sepolcri di Foscolo.
Ma è più importante Dante dello spritz. Allora il vero problema è un altro: il mondo ha preso una certa direzione e ha scelto di relegare la cultura a un ruolo marginale. Essa resterà la battaglia dei più accesi intellettuali e la consolazione dei nobili d’animo inclini alla solitudine. Per tutti gli altri è un orpello, qualcosa di superfluo. E questo non è altro che la conferma di come la società contemporanea sia priva di luce e di speranza.
“Io invidio gli scrittori che hanno la capacità di restare interessati al proprio lavoro pur mentre infuriano pestilenze e guerre: Joyce, per esempio, che con tinuò a scrivere Ulysses durante la guerra del ’14-’18; Proust che continuò a scrivere la Recherche durante la stessa guerra. […]. Un grosso evento pubblico può distrarmi purtroppo, e provocare un mutamento di interessi nel mio lavoro come né più né meno una mia sventura (o ventura) personale”, così diceva Elio Vittorini in una lettera a Moravia e Carocci.
Qual è il suo rapporto con la scrittura durante la pandemia?
La scrittura ha un potere straordinario, quello di esiliare da tutto. Quando scrivo perdo la cognizione del tempo, non sento la fame, non so nemmeno dove mi trovo, intorno a me sparisce tutto e resta solo il libro. La letteratura è finzione, è arte, e non c’è miglior rimedio della letteratura per scordarsi dei mali del mondo.
Nel mio caso il solo condizionamento causato dalla pandemia è stato quello di obbligarmi a scrivere a casa: io amo scrivere all’aperto, penna e taccuino al tavolino di un bar con una bottiglia di vino a farmi compagnia. E amo osservare la gente, quando alzo la testa tra una frase e l’altra. L’isolamento è una buona condizione per scrivere, ma non quando è forzato e prolungato.
La letteratura si nutre di vita, e la vita sono gli altri, il mondo, tutto ciò che sta fuori dal libro e che poi ci entra passando dalla penna. In questo senso la pandemia è stata molto limitante per la mia ispirazione, ma solo per questo aspetto perché poi, se sto scrivendo, può anche crollarmi in testa un palazzo che non me ne accorgo. O magari ci invento sopra una storia!
Progetti per il futuro? Ha già qualche nuovo libro in cantiere? Può anticiparci qualcosa?
Le idee sono molte, e molto diverse tra loro, c’è grande fermento. Attualmente sto lavorando su due fronti, due romanzi con uno stile e un target molto differenti: una storia dolce e commovente con un stile pacato, molto curato, onettiano, e un libro più frizzante e snello, con un linguaggio fresco e più colloquiale, per così dire.
Ho forte e pulsante anche il desiderio di un altro libro in prima persona, una specie di diario da scrivere senza aver programmato nulla, senza una meta precisa, lasciandosi trasportare dall’ispirazione, senza limiti né regole. E poi c’è un altro testo, del quale ho già scritto il primo capitolo, ma che al momento sto volutamente tralasciando perché richiede grande energia e concentrazione: sarà il mio Assalonne, Assalonne! (è il titolo del romanzo che preferisco di Faulkner), un romanzo difficilissimo, una sfida per me e per il lettore, qualcosa per cui serviranno i muscoli. E lo stomaco forte.
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