Conservazione della biodiversità in Italia

Conservazione della Biodiversità. Sono passati ventisette anni dalla Conferenza di Rio, dove si è evidenziato che il dibattito sull’ambiente e la conservazione della biodiversità è fortemente animato o, per meglio dire, dominato, da gruppi di pressione molto forti nei campi della morale, dell’etica e delle religioni, spesso con il risultato di spostare l’attenzione dalle vere […]

Giugno 2019
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Conservazione della biodiversità

Conservazione della Biodiversità.

Sono passati ventisette anni dalla Conferenza di Rio, dove si è evidenziato che il dibattito sull’ambiente e la conservazione della biodiversità è fortemente animato o, per meglio dire, dominato, da gruppi di pressione molto forti nei campi della morale, dell’etica e delle religioni, spesso con il risultato di spostare l’attenzione dalle vere priorità ambientali verso concezioni panteistiche che finiscono per creare una visione fortemente critica verso l’uomo, visto come cancro del pianeta e, quindi, da porre l’alternativa tra proteggere questo o il resto dei viventi.

Per certuni, un’entità soprannaturale ha creato la diversità della natura, questa è di sua proprietà, e gli uomini non hanno il diritto di distruggerla, o addirittura di utilizzarla. Altri, con argomenti assai vicini, partono dal principio che bisogna che il pubblico abbia l’impressione di commettere un sacrilegio o meglio un’infrazione, distruggendo la biodiversità, perché possa imporsi l’idea di conservazione della medesima.

Diversi Autori (vedi ad esempio Ehrenfeld, 1988) hanno portato avanti questa concezione filosofica che introduce la nozione di crimine moralmente riprovevole, della colpevolezza verso la natura e verso le generazioni future. Questa concezione è stata sovente utilizzata da molti movimenti conservazionisti che sono, o sono stati all’origine, dei movimenti moralistici che fanno appello all’etica.

In realtà, il dibattito filosofico intorno alla biodiversità prosegue sulla scia, ancora largamente d’attualità (vedi per esempio l’appello d’Heildelberg), intorno alle relazioni che l’uomo intrattiene con la natura, e sembra coincidere con un cambiamento di attitudine nelle società occidentali.

In effetti, durante i secoli trascorsi, ed in molti casi ancora oggi, le società occidentali, il Giappone ma anche l’ex Unione Sovietica, la Cina e l’India, hanno considerato la natura al servizio dell’uomo, e la dominazione dell’uomo sulla natura si è ulteriormente rafforzata all’epoca della rivoluzione industriale.

Figlio di questa concezione, il mito del progresso nel pensiero moderno postula che la natura deve essere dominata al fine di meglio sfruttarla. E’ il caso delle Specie, adesso protette con grande dispendio di mezzi e di risorse che, fino a non molto tempo fa, sono state considerate nocive e sterminate metodicamente in nome dello sviluppo agricolo (Cadoret, 1985). 

Conservazione della biodiversità: Lince.

Specie un tempo considerate nocive Lince – Foto dell’Autore.
Specie un tempo considerate nocive Lupo – Foto dell’Autore.

Questa visione utilitarista della natura sviluppata in Occidente, si è espansa nel resto del mondo attraverso la colonizzazione e gli scambi economici.

Essa ha conosciuto in un certo modo il suo apogeo dopo la seconda guerra mondiale, allorquando lo sviluppo dei mezzi tecnici ha permesso agli uomini di realizzare dei sogni folli: il semi-prosciugamento del Mare d’Aral, i grandi sbarramenti idroelettrici, il prosciugamento d’immense superfici di zone umide, sono i testimoni di questa ideologia, condivisa dai diversi sistemi politici dell’epoca, che considerava che il progresso dell’umanità dovesse necessariamente essere attuato attraverso il dominio sugli elementi naturali per mezzo delle conoscenze scientifiche e l’utilizzo della tecnologia.

Il principio secondo il quale l’uomo e la natura sono due entità separate, quest’ultima potendo essere un obiettivo di studio e sperimentazione, è manifesto a grandi righe nell’evoluzione della scienza ecologica che per lungo tempo si è concentrata a studiare gli ambienti vergini dall’influenza umana, come nel caso del Programma Biologico Internazionale degli anni ‘6O. Questo fu seguito negli anni ‘7O dal Programma l’Uomo e la Biosfera (MAB) che, per la prima volta, introduceva l’uomo come elemento degli ecosistemi. 

Il logo del Man and the Biosphere Programme – Foto Wikimedia Commons.

Ritroviamo l’idea che l’uomo e la natura sono due entità separate, nel rapporto dominante-dominato, nella concezione dei modelli di gestione (detta razionale, il termine è rivelatore) delle risorse viventi che prendevano in conto unicamente le risorse ignorando gli attori sociali.

Ma l’attitudine dell’uomo in rapporto alla natura è andata sempre più evolvendosi, specialmente nelle società occidentali moderne per le quali la natura è spesso diventata un luogo simbolico di piaceri e di riposo, di rigenerazione e contemplazione. L’ambiente naturale diventa così uno spazio neutro dove il cittadino dimentica temporaneamente le tensioni sociali e le costrizioni del lavoro produttivo (Bozonnet et Fischesser, 1985).

L’importanza crescente delle città, ha certamente contribuito a far progredire questa visione nella mentalità del grosso pubblico. D’altra parte, se la società occidentale ha per lungo tempo fondato il suo sviluppo sulla dicotomia uomo-natura, per altre società, al contrario, la sopravvivenza della specie umana passa obbligatoriamente attraverso la conservazione dei grandi equilibri naturali.

All’estremo, certune comunità rurali di tradizione panteista, considerano che la natura è composta di esseri con i quali l’uomo intrattiene delle relazioni a volte conflittuali. Sono queste le concezioni, con livelli di sensibilità diversi, che animano molte delle ONG o dei gruppi di pressione.

Su un piano più istituzionale, la Carta Mondiale della Natura, adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1982, riconosce che il genere umano fa parte della natura e che ogni forma di vita è unica e merita rispetto.

Si fa appello alla cooperazione internazionale per mettere in atto delle strategie di conservazione della natura, ma queste iniziative hanno avuto in definitiva un impatto decisamente modesto, nella misura in cui i governi non sono stati obbligati ad impegni ben precisi che, peraltro, richiedono una vasta gamma di competenze per un utilizzo durevole della biodiversità e, spesso, ingenti risorse economiche.

L’UICN (International Union for Conservation of Nature) ha proposto più recentemente basi etiche per la conservazione della diversità biologica (McNeely, 1989), focalizzando l’attenzione sul fatto che l’umanità è parte integrante della natura, ed è sottoposta alle stesse leggi ecologiche delle altre specie.

Ne discende, in particolare, la necessità di un profondo rispetto della natura: tutte le Specie hanno il diritto di esistere e la conservazione degli esseri viventi aumenta la qualità della vita.

In questa prospettiva si comprende quanto sia necessario preservare l’integrità dei processi ecologici che condizionano il mantenimento della biosfera e promuovere quindi uno sviluppo che non pregiudichi il rinnovamento naturale delle risorse e non alteri l’equilibrio dei sistemi.

Il concetto di sviluppo duraturo, che non è molto differente in realtà da quello di eco-sviluppo, fa in particolare riferimento alla nostra responsabilità di trasmettere un’eredità in buono stato alle future generazioni.

Questa nozione non è assolutamente neutra politicamente.

Infatti esige implicitamente un approfondimento di pratiche di democrazia partecipata, a partire dal livello locale fino a livello internazionale.

Essa suscita ugualmente un duplice interrogativo:

  • quali sono gli strumenti che ci consentiranno di applicare questo concetto in pratica?
  • sino a quale punto si può perseguire lo sviluppo senza mettere in pericolo l’equilibrio uomo/natura?

Finora, possiamo asserire che, al di la di affermazioni di principio, la maggior parte delle problematiche affrontate in ambito internazionale, non ha trovato soluzioni soddisfacenti, in quanto i singoli Stati antepongono i loro interessi immediati a strategie di ampio respiro e, sovente, i governi tendono a bypassare anche gli accordi e gli impegni assunti a livello internazionale.

Per correttezza andrebbe considerato anche il rispetto del Protocollo di Kioto, concernente le misure da adottare per contrastare il supposto riscaldamento globale causato dall’immissione in atmosfera dei cosiddetti “gas serra”, in quanto è impensabile ritenere la conservazione della biodiversità avulsa dal contesto più ampio formato da tutto l’insieme delle componenti ecosistemiche.

Da questo punto di vista, le misure che sarebbe stato necessario prendere per cominciare a mutare lo scenario energetico, malgrado le roboanti dichiarazioni della classe politica: sono state generosamente finanziate le cosiddette energie alternative (più correttamente integrative), mentre si è trascurata la possibilità di porre un limite all’utilizzo dei combustibili fossili, sostituendoli almeno in parte con nucleare, solare termodinamico a concentrazione, geotermico, ecc.

Il cosiddetto risparmio energetico (o, meglio, efficienza energetica) viene trascurato dai cittadini che, spesso, utilizzano in maniera smodata i combustibili (vedi ad esempio la temperatura media tenuta all’interno degli edifici, ossia altissima d’inverno e bassissima in estate, o l’utilizzo massivo dell’automobile), per non parlare della dipendenza energetica del nostro Paese dal gas naturale e dagli oli pesanti, mentre il solo accennare al nucleare da fissione viene considerato blasfemo.

Parimenti fondamentale è la conservazione degli habitat. 

Infatti la prima causa dell’estinzione di specie e popolazioni è proprio la riduzione e/o la distruzione degli stessi: da questo punto di vista, in Italia, nonostante siano state sottoposte molte zone a tutela, si continua a costruire dappertutto ed ad alterare il paesaggio. Basta verificare come vengono “preservate” le zone umide interne!!

Non parliamo della manutenzione ambientale, questa è sconosciuta ai più e, malgrado le enormi somme stanziate per la protezione ambientale, raramente effettuata. Infatti non si è ancora passati dalla cultura dell’emergenza a quella della programmazione e gestione.

Ma, dopo la distruzione di habitat, per distruggere le Specie, il sistema più efficiente è l’introduzione di Specie alloctone, a volte accidentale, ma più spesso risultato di incuria o, peggio, di atti deliberati.

Ovviamente, dopo tali atti irresponsabili, l’eventuale eradicazione delle specie invasive, viene osteggiata dai sedicenti protettori dell’ambiente. In particolare dai cosiddetti animalisti, che antepongono all’integrità degli ecosistemi dove ogni Specie si è coevoluta con le altre, la protezione ad oltranza del singolo organismo immesso, anche se questo causa ingenti danni alle Specie autoctone.

Conservazione della biodiversità: Specie autoctona Iris reticulata.

Specie autoctona Iris reticulata – Foto dell’Autore.
Specie alloctona Iris japonica – Foto dell’Autore.

Al terzo posto di questa nefasta classifica, viene l’impatto causato dalle attività umane, spesso dovuto alla non corretta applicazione tecnologica delle attività agricole e industriali, e, paradossalmente, dalla mancata realizzazione di infrastrutture (come inceneritori, interporti, incremento del trasporto su rotaia, su vie d’acqua e su arterie di scorrimento) e dal rifiuto, pressoché totale, di nuove tecnologie che, viceversa, potrebbero consentire di migliorare drasticamente la qualità e la salubrità degli ambienti naturali ed antropizzati (come le biotecnologie).

Purtroppo, a fronte del quadro che abbiamo delineato, l’approccio verso le problematiche ambientali (e non solo verso queste) è del tutto peculiare del nostro Paese: oltre all’atavica cultura dell’emergenza, che andrebbe sostituita dalla cultura della programmazione, come più sopra delineato, ogni decisione da prendere è il frutto di accordi ed aggiustamenti o del virare verso chi in quel momento detiene la maggioranza.

Mappa degli ecosistemi e mappa del suolo consumato a livello comunale – Cortesia ISPRA.

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