Struttura delle zone umide prealpine
Struttura delle zone umide prealpine: Introduzione. Le zone umide interne, ossia qui non ci occupiamo di quelle ubicate in prossimità delle coste marine, sono di varie tipologie, quindi, dopo un’introduzione generale, approfondiremo le peculiarità di ognuna di esse. Le zone umide sono caratterizzate da dinamiche che nel tempo ne alterano forma, profondità ed estensione, e […]
Struttura delle zone umide prealpine: Introduzione.
Le zone umide interne, ossia qui non ci occupiamo di quelle ubicate in prossimità delle coste marine, sono di varie tipologie, quindi, dopo un’introduzione generale, approfondiremo le peculiarità di ognuna di esse.
Le zone umide sono caratterizzate da dinamiche che nel tempo ne alterano forma, profondità ed estensione, e con esse modificano le componenti animali e vegetali che le popolano. Trattandosi generalmente di zone site tra ambienti terrestri e ambienti acquatici costituiscono ecosistemi di transizione, definiti più propriamente ecotoni. Inoltre, dal punto di vista temporale, costituiscono ambienti di transizione.
Infatti la loro origine è causata dal progressivo accumulo di materiale vegetale e terriccio, successivamente limo, con la formazione e lo sviluppo di piante dapprima igrofile e successivamente acquatiche e l’accumulo continuo di quelle in decomposizione, in migliaia di anni tendono ad interrarsi, fino a trasformarsi in acquitrini, prati, arbusteti ed infine boschi che costituiscono la fase finale o climax.
Ovviamente in natura niente è definitivo, per cui i boschi sono a loro volta caratterizzati da uno sviluppo successivo. Va sottolineato che, dal punto di vista ecologico, il climax è la fase meno produttiva e con minore biodiversità di tutte le successioni ecologiche.
In passato la trasformazione di una zona umida sita in ambiente circumlacuale, determinata dal processo di successione primaria, si verificava contemporaneamente alla formazione di un nuovo habitat, in migliaia di anni.
Attualmente questo non è più possibile a causa dei profondi rivolgimenti apportati dall’uomo che ha stravolto completamente le sponde lacustri, con estese cementificazioni che impediscono il naturale avvicendarsi degli ecosistemi. Inoltre, l’elevato carico trofico, causato dagli scarichi domestici, industriali ed agricoli, determinano un elevato apporto di nutrienti ed inquinanti. I primi accelerano il fenomeno di eutrofizzazione e di interramento, mentre i secondi sconvolgono le catene trofiche. Anche gli apporti di acque provenienti da fiumi, torrenti e risorgive vengono spesso diminuiti o impediti da improvvide opere di irreggimentazione, deviazione o addirittura occlusi con la sovra costruzione di strade o immobili.
Formazione delle zone umide.
Le zone umide che caratterizzano territorio del nostro Paese appartengono alle seguenti tipologie:
– Paludi. Si tratta di aree caratterizzate da acque profonde generalmente meno di sei metri, con presenza di vegetazione acquatica, con spazi coperti da vegetazione arborea, acque per lo più stagnanti, anche se non mancano paludi alimentate da corsi d’acqua e/o risorgive. La loro origine è causata dalla mancanza di un normale deflusso delle acque o dove le acque si accumulano in una piana, o quando un lago si prosciuga o, infine, grazie alla falda sotterranea presente nell’area interessata. Sono contraddistinte dalla presenza di varie specie faunistiche, che usufruiscono di tali ecotoni sia come luoghi di svernamento, estivazione, riproduzione, sia che come siti permanenti di stazionamento;
– Torbiere. Originate dal progressivo interramento di uno specchio d’acqua, con la presenza eutrofica (alta concentrazione di materia organica, in uno specchio d’acqua è causata da alta concentrazione di nutrienti e dal successivo consumo di ossigeno da parte delle piante, con conseguente aumento di anossia) di piante, soprattutto Alghe e Sfagni (che appartengono ai Muschi). Può anche originarsi dall’impaludamento di una superficie in origine asciutta. Nel corso dei millenni, sotto la superficie dell’acqua, la sostanza organica, originatasi dai resti delle piante e degli animali in condizioni di anossia ed acidità, inizia a trasformarsi in torba.
Con il continuo accumulo di materiale che comprime quello sottostante, sopra la torba comincia la colonizzazione, dapprima di piante flottanti o con radici completamente subacquee, successivamente si sviluppa la fase che può essere definita semiterrestre con la diffusione di specie che radicano sopra lo strato acquatico. In questa fase compaiono le specie tipiche e si innesca un moderato ciclo stagionale caratterizzato da periodi ossigenazione alternati a periodi di anossia.
La struttura altamente igroscopica della torba, unita al progressivo accumulo di materiale, facilitano l’innalzamento di cuscinetti di torba che, trattenendo l’acqua, favoriscono l’innalzamento della falda e, in condizioni di bassa temperatura (condizione necessaria perché l’acqua sia ricca di ossigeno) favoriscono lo sviluppo rigoglioso della vegetazione;
– Fragmiteti costieri. Formazioni elofitiche (ossia formate da piante che hanno radici ancorate al suolo, ma queste e le gemme ricoperte d’acqua, mentre fusti e foglie sono generalmente aeree) di Cannuccia d’acqua (Phragmites australis). La cannuccia vive con i rizomi sommersi e forma una fascia intorno a laghi e paludi all’esterno della zona in cui vive la vegetazione idrolitica.
Ecosistema delle zone umide.
I componenti di un ecosistema, come quello palustre, si possono scomporre in abiotici e biotici. Gli abiotici sono i costituenti fisici e chimici in cui gli organismi vivono, mentre i biotici comprendono tutti gli organismi che ne fanno parte, a loro volta inestricabilmente legati fra loro in complesse catene interagenti, come vedremo in dettaglio successivamente.
I componenti abiotici sono temperatura, piovosità, ventosità, radiazione luminosa, ed elementi chimici presenti nell’acqua. Infatti, unitamente alle caratteristiche morfologiche e geologiche, questi fattori hanno un ruolo determinante nel caratterizzare la catena trofica e influenzare la tipologia e lo sviluppo degli organismi che ne fanno parte.
Mentre una breve analisi dei costituenti la climatologia e le caratteristiche geografiche e geologiche è stata già effettuata nei precedenti fascicoli della rivista, anche se va sottolineata l’importanza dei microclimi che si instaurano nelle varie nicchie ecologiche dei siti in esame che determinano quali specie possono viverci, mi sembra il caso di soffermarci sui componenti chimici che hanno maggiore importanza negli ecosistemi che stiamo descrivendo.
Ovviamente, l’acqua costituisce il principale composto che determina quali comunità biotiche possono occupare le varie componenti del sito. Le principali caratteristiche di tale composto che ci interessano sono, il livello di acidità, la temperatura, il grado di torbidità, la quantità di ossigeno disciolto, la presenza di minerali, nutrienti ed acidi umici disciolti.
L’acqua presente in natura non è mai neutra ma presenta una certa quantità di ioni H+ e OH– la cui quantità ne determina il grado di acidità/basicità. Le acque dolci sono sempre moderatamente acide, con un pH leggermente inferiore a 7 (grado di neutralità), quello che va sottolineato e che l’acidità, già spesso elevata nelle acque palustri, fino a scendere vicino a pH 6, spesso aumenta a causa dell’acidità portata dalle piogge a causa dei rilasci in atmosfera di elementi e composti liberati dalle attività umane, in special modo dalla produzione energetica per mezzo dei combustibili fossili.
La temperatura, oltre che dalle variazioni stagionali, è determinata principalmente dagli apporti degli immissari e dalle acque meteoriche, dall’interfaccia atmosfera/superficie, ed anche, dagli scarichi fognari ed industriali.
Il grado di torbidità e l’apporto di nutrienti sono determinati dalla quantità di microorganismi, nutrienti e di altre sostanze presenti e varia in funzione della produzione biologica, determinata a sua volta dalle stagioni e dall’efficienza della catena trofica. Anche in questo caso, gli apporti degli scarichi antropici hanno un impatto deleterio, specialmente considerando che gli ecotoni non hanno che limitate capacità di depurazione e risentono significativamente degli apporti che aumentano l’eutrofizzazione, determinando il degrado ed incrementando l’accelerazione dei fenomeni di sviluppo algale, anossia, morte e decomposizione degli organismi.
La quantità di ossigeno disciolto, in assenza di fattori antropici di disturbo (condizione che, nelle zone di nostro interesse, purtroppo è presente), è determinata dalla temperatura, dall’apporto idrico, dalla tipologia e quantità delle specie presenti. In particolare la presenza di Alghe e di Sfagni, specialmente nella stagione invernale con minor produzione fotosintetica, favorisce condizioni anossiche.
Le acque dolci contengono per definizione 500 parti per milione di sali disciolti. Ovviamente, tale quantità varia in relazione ad ogni ambiente. Nelle zone palustri e nelle torbiere spesso questa quantità è leggermente maggiore. In casi di apporti stagionali, sia meteorici che da emissari, così come in caso di periodi di siccità prolungate, questo valore può presentare degli incrementi, con effetti anche significativi sulle comunità biologiche.
Il carbonio presente è determinato dalla quantità di composti organici (anidride carbonica, carbonati e bicarbonati) ed inorganici in fase disciolta e/o sospesa. Quello presente sotto forma di anidride carbonica è determinato anche dalla respirazione degli organismi e dall’efficienza della fotosintesi clorofilliana da parte di alghe e piante, ed è, ovviamente, variabile con le stagioni.
Le sostanze organiche solitamente presenti nelle acque sono gli acidi umici (acidi naturali che si formano in conseguenza della biodegradazione degli organismi morti da parte dei batteri) e quelli fulvici (deboli acidi prodotti dalla decomposizione degli organismi presenti nel terreno e trasportati in acqua dal dilavamento).
Ciclo dell’azoto.
Uno dei cicli chimico-biologici più importanti è quello dell’azoto. Si suole dividerlo in un grande ciclo che avviene fra l’atmosfera e la biosfera ed un piccolo ciclo che si verifica interamente all’interno della biosfera e viene anche definito riciclizzazione.
L’azoto è necessario agli esseri viventi in quanto costituisce un componente degli acidi nucleici e delle proteine. La maggior parte dell’azoto presente in natura si trova allo stato gassoso, in quanto principale componente dell’atmosfera, di cui costituisce il 78% in peso. Però, con esclusione di alcuni batteri, definiti azoto-fissatori, i viventi non riescono ad utilizzarlo direttamente nella forma gassosa. Infatti il termine azoto in latino deriva da azoon, ossia privo di vita. Le Piante verdi possono però assorbirlo attraverso le radici, quando è presente nel terreno sotto forma di composti azotati, e viene trasportato dall’acqua. 3
Le piante, essendo autotrofe, sono in grado di organicare gli elementi, ossia incorporarli nelle macromolecole biologiche e, quindi, renderli disponibili per gli organismi eterotrofi, immettendoli di conseguenza nella catena alimentare. Gli organismi restituiscono l’azoto al terreno, sia sotto forma delle deiezioni animali che, dopo la morte, attraverso il meccanismo della decomposizione.
Il ciclo dell’azoto è particolarmente critico, poiché questo elemento entra nelle composizione di varie molecole: oltre all’azoto molecolare, azoto organico, ammoniaca, Sali d’ammonio, nitriti e nitrati. La formazione di questi composti avviene attraverso quattro tipologie di processi chimici: azotofissazione, ammonificazione, nitrificazione e denitrificazione.
L’azotofissazione è un processo biologico, in quanto realizzato da Batteri presenti nel terreno, principalmente appartenenti ai generi Azotobacter e Clostridium, alle Cianoficee conosciute comunemente con il nome di Alghe azzurre; Rhizobacterium, Batteri che vivono in simbiosi mutualistica con le radici di alcune Leguminose, ma anche dell’Ontano e di alcune specie di Felci; Frankia, Batteri, sempre simbionti mutualisti, che formano noduli actinorriza in radici di Piante Fanerogame che non appartengono però alle Leguminose.
L’azotofissazione avviene a volte, in una percentuale valutabile al dieci per cento, in maniera non biologica, attraverso l’azione dei fulmini, con la formazione di ossidi di azoto (NOX) che, combinandosi con l’acqua piovana, raggiunge il terreno sotto forma di acido nitrico (HNO3).
Le restanti tipologie di azotofissazione sono di tipo mineralogico: l’ammonificazione si compie per mezzo della decomposizione degli organismi morti e delle altre sostanze organiche in putrefazione. Questo processo è realizzato da organismi saprofiti, appartenenti ai Regni dei Batteri e dei Funghi, che degradando l’azoto amminico, liberano ammoniaca nel terreno. Questa sovente reagisce con vari elementi presenti nel terreno e forma sali d’ammonio.
L’ammoniaca ed i sali d’ammonio, prodotti dai fenomeni più sopra discussi, e quindi presenti nel terreno, vengono spesso ossidati da Batteri, attraverso il processo definito di nitrificazione. Questi Batteri nitrificano appunto l’ammoniaca, ossia la trasformano in nitriti (NO2-). Altri Batteri ossidano i nitriti, trasformandoli in nitrati (NO3-).
Se la quantità di azoto presente nel terreno diventa significativa, a causa spesso della grande entità di materiale in decomposizione e degli scarichi non depurati, il successivo trasporto di questo nei corpi idrici, causa anossia, eutrofizzazione e tossicità, con rilevanti danni alle specie che le popolano.
La denitrificazione, ossia la riduzione dei nitrati in azoto molecolare che viene in tal modo rilasciato in atmosfera, completando il ciclo di questo elemento negli ecosistemi, viene attuata, dai Batteri Clostridium e Pseudomonas (anaerobi facoltativi, in grado cioè di poter esplicare il loro metabolismo sia in presenza che in assenza di ossigeno) quando si trovano in condizioni anaerobiche, ossia in mancanza di ossigeno.
Ciclo del fosforo.
Il fosforo è un elemento di estrema importanza per gli esseri viventi, in quanto componente essenziale degli acidi nucleici e delle molecole coinvolte nel metabolismo energetico della cellula (ATP, ADP, NADPH, GTP, ecc.). Di conseguenza il suo ciclo geo-bio-chimico è di grande rilevanza negli ecosistemi.
Il fosforo che si trova nel terreno deriva dalla degradazione delle rocce fosfatiche, come Apatite, il cui è sostituito da altri elementi. In origine arriva nel suolo come ione fosfato o ortofosfato (PO43-). Questo sedimenta, essendo molto stabile. Successivamente viene “organicato” da Funghi e Batteri che lo convertono nella struttura maggiormente solubile. 6
Allo stato selvatico, le Piante superiori formano per la maggior parte micorrize, ossia simbiosi fra le loro radici e Funghi. In tal modo possono ricevere dal Fungo simbionte il fosforo (che il Fungo organica partendo dai fosfati, ovviamente in presenza di acqua che scioglie i fosfati stessi) ed altri elementi, e fornisce al Fungo simbionte carboidrati ed amminoacidi. 7
Una volta reso fruibile dai Funghi e dalle Piante, il fosforo entra nella catena alimentare, dove viene utilizzato dagli organismi eterotrofi che, come dice il nome, sono in grado di nutrirsi di sostanza resa organica dai viventi che, essendo autotrofi, possono sfruttare la materia inorganica.
Il fosforo che deve essere eliminato nel corso del metabolismo, a seconda del gruppo tassonomico come acido urico o urea, viene espulso in maniera peculiare per ogni tipologia di organismi.
I Batteri ed i Protisti (unicellulari), generalmente lo eliminano per esocitosi, ossia riversandolo in vacuoli contrattili presenti sulla membrana cellulare.
Le Piante lo eliminano attraverso gli stomi.
Gli Animali presentano varie tipologie di apparati per l’eliminazione del fosforo.
Animali di piccole dimensioni, per lo più privi di una vera cavità celomata, utilizzano per l’escrezione del fosforo e delle altre di scarto i protonefridi, da cui si sono poi evoluti i nefroni che caratterizzano i reni degli Animali superiori.
Negli invertebrati dotati di una vera cavità celomatica, sono presenti i metanefridi, maggiormente strutturati rispetto ai proto nefridi, che sono essenzialmente dei piccoli tubuli. I metanefridi sono invece strutturati in tessuti formati da cellule specializzate ed hanno una maggiore efficienza nella separazione e nella successiva eliminazione del fosforo e delle altre sostanze di scarto, consentendo una minima perdita di acqua.
Negli Insetti sono presenti i tubuli malpighiani (così chiamati in onore del loro scopritore, Marcello Malpighi). Si tratta essenzialmente di un sistema di trasporto attivo, che avviene attraverso membrane ioniche, ossia che consentono il passaggio di ioni di sodio e potassio che favoriscono l’assorbimento delle sostanze di scarto nell’intestino e successivamente nel retto, mentre l’acqua viene riassorbita e quindi può essere riutilizzata.
Nel Subphilum Vertebrati, il fosforo viene eliminato generalmente attraverso l’apparato urinario, e gli apparati protonefriale e metanefriale, presenti nei reni, e spesso attraverso escrezione e sudorazione. Dal punto di vista metabolico, esistono nei Vertebrati tre tipologie di escrezione del fosforo:
amniotelica, ossia attraverso la produzione di ammoniaca, questa tipologia metabolica necessita di grande disponibilità idrica, per cui è utilizzata dalla maggior parte delle specie di Pesci; ureotelica, utilizzata da molti Anfibi e dai Mammiferi, si esplica attraverso la produzione di urea che viene diluita in quantità limitate di acqua ed espulsa sotto forma di urina;
uricotelica, caratteristica dei Sauropsidi (ossia Rettili ed Uccelli), che avviene attraverso la produzione di acido urico, che viene espulso in forma solida (avete presente la parte bianca degli escrementi dei Piccioni e delle Galline, si tratta di questo), con perdita modestissima di acqua. Tra parentesi, desidero sottolineare che proprio la presenza di acido urico nelle feci degli Uccelli causa danni rilevanti ai monumenti ed ad altri manufatti.
A differenza che nel ciclo dell’azoto, nel caso del fosforo, mancando questo di una fase gassosa, non abbandona mai il ciclo biologico, tranne per la parte che, in seguito al dilavamento, viene infine depositato nei fondali oceanici.
Il fosforo, nell’intero ciclo biologico, non varia il suo numero di ossidazione, sempre -5.
Nelle acque, sia correnti che in bacini, il fosforo entra nella forma organica particolata, viene idrolizzato nella forma organica solubile, viene mineralizzato in ortofosfato (PO43-), quindi assimilato dalle alghe che, successivamente lo liberano come fosforo organicato particolato che, a sua volta, viene decomposto da Batteri che lo liberano nelle forme organica o inorganica solubile.
In condizioni favorevoli, i Batteri capaci di accumulare il fosforo, attraverso processi alternati di aerobiosi/anaerobiosi, accumulano e liberano fosforo. Utilizzando questo elemento per la crescita, la quantità di fosforo che accumulano supera quella che rilasciano. Per questo scopo sono anche utilizzati dall’uomo negli impianti di depurazione.
Zona Prealpina.
La zona Prealpina costituisce una zona marginale più bassa e con caratteristiche peculiari delle Alpi. E’ composta da un complesso di contrafforti e di gruppi montuosi, in gran parte di struttura calcarea, e pedemontani, scolpiti dalle glaciazioni e successivamente modellati dagli eventi climatici e dalle successioni ecologiche.
In ultimo, l’uomo ha profondamente rimodellato il paesaggio, a cominciare dal periodo dell’ascia pesante e, progressivamente, fino alla situazione attuale che ha comportato un profondo rivolgimento anche dei laghi e dell’intero sistema idrografico, con l’irreggimentazione dei fiumi, l’estesa cementificazione delle rive, la creazione di invasi artificiali, la bonifica della maggior parte delle aree palustri e, complice l’inquinamento da lui prodotto, alterato persino le caratteristiche delle acque, con il conseguente impoverimento della biodiversità. Anche la modifica del popolamento vegetale e l’immissione di fauna alloctona hanno contribuito a modificare il paesaggio.
Il Lago Maggiore, a nord inserito nella fascia più propriamente definita alpina, si protende a sud nella zona subalpina. La sua cospicua profondità ne rivela l’origine di sovra escavazione glaciale, mentre, ad esempio, il Lago di Varese, essendosi originato da una morena, è caratterizzato da una profondità apprezzabilmente minore. In effetti la maggior parte dei laghi prealpini sono grandi valli scavate e modellate dai ghiacciai che hanno modificato precedenti bacini fluviali, mentre altri costituiscono i resti di anfiteatri morenici, come il suddetto Lago di Varese.
Lago Maggiore.
L’aspetto delle sponde del Lago Maggiore è tipico dei laghi originatisi in relazione al glacialismo (e non glaciali, come alcuni erroneamente scrivono: infatti la geografia fisica ci insegna che i laghi glaciali sono quelli la cui struttura è formata da ghiaccio), caratterizzate da seni e golfi, con le rive a nord generalmente scoscese, anche se non mancano zone piane, come Locarno, che è un delta di un torrente.
Il clima è peculiare delle valli prealpine, caratterizzato da abbondanti precipitazioni che consentono il mantenimento di una folta vegetazione di latifoglie. Inoltre, come noto, le grandi masse d’acqua agiscono da moderatore del clima, grazie alla grande inerzia termica della stessa. Anche la barriera costituita dalle Alpi, che frena i venti nordici, contribuisce alla mitezza del clima, e consente lo sviluppo di essenze vegetali caratteristiche altrimenti della zona mediterranea.
Come sottolineato più volte su queste pagine, l’uomo ha infaustamente alterato profondamente le sponde del Lago Maggiore con estese cementificazioni e con la distruzione della maggior parte delle zone umide che le caratterizzavano. Diviene quindi imprescindibile il recupero e la salvaguardia di quelle residuali che, nonostante siano inserite in contesti di protezione europei, sono tuttora sottoposte a degrado e, spesso, oggetto di tentativi di speculazione edilizia.
In particolare, nell’ambito del territorio compreso nell’Ecomuseo, sul Lago Maggiore insistono siti di elevato interesse naturalistico, anche in considerazione dell’ecologia storica: “Canneti del Lavorascio” nel comune di Ispra, “Palude Bozza” (infaustamente e ridicolmente definita Sabbie d’Oro poiché improvvidamente oggetto di colmature, in parte rimosse grazie all’intervento del Dr. Gianfranco Realini che è riuscito a salvare questa zona di importanza internazionale anche da altre aggressioni speculative, unico caso in Italia e fatto da privato cittadino!) nei comuni di Ispra e Brebbia, “Palude Bozza-Monvallina” nei comuni di Besozzo e Monvalle, “Canneti di Angera” nell’omonimo comune di Angera.
Lago di Varese e Bacini minori.
A Sud dei grandi laghi, situata tra il Lago Maggiore e il Fiume Adda, si sviluppa una regione dai rilievi modesti, in generale costituiti da antiche morene, dove sono presenti parecchi laghi minori, fra cui il principale è quello di Varese. Sul territorio della provincia varesina sono presenti tra gli altri Monate, Comabbio e Biandronno.
Quest’ultimo è in effetti ora una torbiera: costituisce quindi l’ultimo stadio di un bacino lacustre che occupa una piccola conca lungo la sponda nord-occidentale del Lago di Varese, da cui è separato da un setto di roccia calcarea. In passato utilizzato per l’estrazione di torba, nel secolo scorso, a partire in particolare dal boom economico successivo al secondo conflitto mondiale, soprattutto a causa dell’eutrofizzazione causata dall’uomo, si è notevolmente accentuata la copertura di Canna palustre (Phragmites australis) , che, ormai, ricopre quasi interamente il bacino. L’apporto idrico è esclusivamente dovuto alle piogge, mentre l’unico emissario, artificiale, è costituito dalla Roggia Gatto, che sfocia nel Lago di Varese.
Eutrofizzazione.
Non possiamo concludere queste brevi note senza porre l’attenzione del lettore sul fenomeno dell’eutrofizzazione. Infatti, questa costituisce un fenomeno rilevante che interessa tutti i laghi presenti nel nostro territorio. L’eutrofizzazione, in estrema sintesi, è costituita dall’aumento delle sostanze nutritizie presenti nell’acqua. La maggior parte dell’eutrofizzazione dei nostri bacini idrici è causata dall’uomo, con l’immissione di scarichi industriali domestici.
Anche l’utilizzo di concimi e presidi sanitari utilizzati in agricoltura contribuiscono all’acuirsi dl fenomeno. Certo, esistono i depuratori, ma questi non coprono tutte le utenze e, spesso, non esistono nemmeno. Secondo l’ISTAT, attualmente in Italia solo il quarantadue per cento dei comuni sono dotati di depuratori e, sovente, i fanghi non sono gestiti correttamente. Inoltre le pratiche agricole industriali, raramente tengono in dovuta considerazione l’impatto sui corpi idrici. Non va sottaciuto il fatto che anche la speculazione edilizia contribuisce all’acuirsi del fenomeno: infatti, raramente le costruzioni abusive, abusive ovviamente sino all’immancabile condono, sono allacciate alla rete fognaria.
L’eutrofizzazione, causata come abbiamo visto dalla presenza di sostanze immesse nel bacino, soprattutto fosforo e azoto, inizia grazie allo sviluppo esplosivo delle Alghe, in particolare appartenenti al genere Microcystis, e prosegue con il proliferare delle alghe brune che, non possedendo cloroplasti, non compiono la fotosintesi clorofilliana e contribuiscono significativamente al consumo dell’ossigeno presente nell’acqua, questo fenomeno determina fenomeni di anossia, determinando mortalità elevata della fauna presente, accelerando in tal modo l’anossia a causa del consumo di ossigeno per la decomposizione degli organismi morti. Ancor prima che la situazione diviene critica, il degrado della qualità delle acque e la presenza di microrganismi patogeni, aumenta la diffusione dei patogeni stessi e la conseguente diffusione di malattie nei Pesci e nell’altra fauna presente.
Il bacino idrico maggiormente caratterizzato da estesa eutrofizzazione , fra quelli che abbiamo brevemente descritto, è quello del Lago di Varese, il cui inquinamento è causato per circa il settantacinque per cento dagli scarichi industriali e per la percentuale rimanente da quelli civili.
Il contrasto al fenomeno dell’eutrofizzazione è rappresentato, come sottolineato sopra, dall’utilizzo di validi sistemi di depurazione delle acque, dall’utilizzo di sostanze biodegradabili e da un più attento impiego dei prodotti di sintesi nelle pratiche agricole. Ma, soprattutto, impedendo e rimuovendo i manufatti che impediscono la circolazione idrica. In questo senso va sottolineata l’importanza della rimozione delle colmature che, in molti casi, soffocano le risorgive che alimentano molte zone palustri, come giustamente rimarcato più volte da Realini che, già nel 1978, unico caso in Italia, si adoperò per eliminare una colmatura, abusiva, che stava portando alla morte della Palude Bozza. Purtroppo, come più sopra brevemente delineato, la parte della colmatura sita nel territorio del comune di Brebbia è ancora presente e, permettendo l’accesso al sito, contribuisce al degrado di quest’ultimo.
Proseguendo la nostra disamina sulle zone umide ubicate sul territorio dell’Ecomuseo, continuiamo la descrizione delle loro caratteristiche.
Palude Bruschera. Ubicata nel territorio comunale di Angera, in realtà si tratta di una foresta allagata, tipologia territoriale al tempo dell’ascia pesante diffusissima, ma ormai residuale. Questa tipologia ambientale, che probabilmente molti conoscono per i film western ambientati in Louisiana, si caratterizza per le radici degli alberi immerse costantemente nell’acqua che ricopre parte quasi interamente la zona, con esclusione dei sentieri sterrati e dell’Isolino Partegora.
Tra le specie vegetali presenti, vanno citati l’Ontano nero, il Salice bianco, la Canna palustre, le Ninfee bianche e la Viola palustre.
Lago di Biandronno. Si tratta in realtà di una torbiera ubicata in una conca formatasi in relazione al glacialismo, ubicata lungo la sponda occidentale del Lago di Varese, ed è separato da questo da una lamina di roccia calcarea. Questa torbiera è in una fase avanzata di successione ecologica di un lago giunto a fine vita, coperto quasi interamente da canneti e cariceti. Solo al centro dell’area è presente una parte in cui è ancora presente l’acqua, ossia quello che resta dell’antico lago. Attorno al lago i boschi igrofili e i prati sono inframmezzati da piccoli specchi d’acqua, dove un tempo si asportava la torba.
Lago di Comabbio. Come tutti i laghi presenti sul nostro territorio, anche questo si è originato in relazione al glacialismo quaternario. Il Lago ha una superficie di 3,4 chilometri quadrati ed una profondità massima di 7,7 metri. Il lago un tempo era collegato con il Lago di Varese, mentre attualmente è diviso da questo dalla Palude Brabbia. E’ delimitato dal Massiccio del Monte Pelada e del Monte Calvo ad Ovest, mentre ad Est dal Monte San Giacomoe a Nord Est da un falsopiano che unisce la sponda di Biandronno con quella di Ternate.
Il clima.
Prima di concludere queste brevi note, è necessario completare la descrizione delle caratteristiche climatiche e vegetazionali che le caratterizzano.
Il clima che caratterizza l’area dell’Ecomuseo dei Laghi, inserita in un territorio tipicamente continentale, beneficia dalla barriera a Nord, costituita dalla Catena Alpina, che blocca le correnti fredde provenienti dall’Europa settentrionale, e trattiene le correnti calde provenienti da Sud.
Il clima è favorito dalla presenza dei bacini lacustri. Infatti, come è noto, l’acqua accumula lentamente il calore e lo rilascia altrettanto lentamente, favorendo la mitigazione delle escursioni termiche, rispetto ad aree con le stesse caratteristiche geografiche che non possiedono bacini lacustri. Grazie a queste caratteristiche, l’area beneficia di temperature relativamente miti e da un regime pluviometrico medio.
Il paesaggio.
Il paesaggio posteriore l’ultima glaciazione era caratterizzato, come in tutta l’area Padana, da foreste, inframmezzate da zone umide. Ma, nel periodo chiamato dell’ascia pesante, l’uomo, espandendosi progressivamente verso ovest, ha cominciato a disboscare e successivamente ridurre a pascolo ed a coltivazioni, gran parte del territorio, costruendo insediamenti anche sulle rive dei laghi, inizialmente palafitte, successivamente insediamenti più elaborati, come testimoniato dai reperti che sono stati portati alla luce nel corso di scavi, eseguiti sulle rive dei laghi e nelle torbiere, a partire dalla prima metà dell’ottocento, principalmente per la costruzione di porticcioli per la pesca, di attracchi per i traghetti, e per l’estrazione della torba.
Nel corso dei secoli, e segnatamente negli ultimi due, gli insediamenti e le opere infrastrutturali hanno significativamente modificato l’ambiente con alterazioni a volte devastanti. In particolare i bacini lacustri sono stati oggetto di significativi rivolgimenti. Come discusso precedentemente, il Lago Maggiore 2 è stato oggetto di estese opere di alterazione idrografiche dovute all’opera umana, con la formazione di oltre trenta invasi artificiali, che hanno una capacità complessiva di seicento milioni di metri cubi d’acqua.
Le rive, in particolar modo della parte italiana del Lago, sono state, e continuano ad essere, oggetto di massiccia antropizzazione, spesso con estesa cementificazione delle rive. Nel secolo passato, il carico antropico, con relativi scarichi urbani, agricoli ed industriali, ha causato vasta eutrofizzazione, dovuta principalmente al fosforo e ad altri inquinanti di tipo chimico (insetticidi organoclorurati, idrocarburi, metalli pesanti, ecc.), fenomeni che sono in diminuzione, ma tutt’altro che soddisfacentemente risolti. Ciò è dovuto in parte alla costruzione di sistemi di depurazione delle acque, ed in parte al cambiamento di tipologia della produzione industriale. Per, cui nel corso del tempo, sono mutate le tipologie di agenti inquinanti. In passato, la Confederazione Elvetica, ha “gettato” nel Lago fusti contenenti rifiuti radioattivi derivanti dalla produzione energetica da fissione.
A causa di questi profondi rivolgimenti causati dall’antropizzazione, la maggior parte della fascia costiera originaria dei laghi è stata significativamente modificata, con estese cementificazioni delle sponde o comunque sostituzione della fascia costiera con opere antropiche, per cui il naturale avvicendamento delle successioni ecologiche è, di fatto, profondamente modificato o, in molti casi, annullato. Per questo motivo, è imprescindibile la conservazione degli ultimi siti che ancora presentano un elevato grado di naturalità, comprese le zone umide presenti nell’area che, oltre ad essere ambienti residuali, costituiscono gli ultimi biotopi che conservano la vegetazione originaria e sono importanti aree di rifugio e riproduzione per molte specie animali.
L’attuale vegetazione rivierasca viene generalmente ed impropriamente definita insubrica ma, in effetti, solo una parte di essa può definirsi tale, in quanto sono presenti essenze tipiche di gran parte delle zone umide delle Prealpi. Bisogna anche tener conto che parte significativa della vegetazione originaria è stata spesso alterata, con l’introduzione di specie alloctone.
La flora presente nell’area è significativamente condizionata dalle condizioni climatiche, in parte influenzate dalla vicinanza dei bacini lacustri, ciò ha permesso lo sviluppo di piante tipicamente mediterranee e di piante caratteristiche dell’area dell’atlantico meridionale. La composizione della flora è, ovviamente, influenzata anche dalle caratteristiche fisico-chimiche del terreno ed all’abbondanza di rocce silicee.
Vegetazione.
La vegetazione prealpina viene generalmente ed impropriamente definita insubrica ma, in effetti, solo una parte di essa può definirsi tale, in quanto sono presenti essenze tipiche di gran parte delle zone umide delle Prealpi. Bisogna anche tener conto che parte significativa della vegetazione originaria è stata spesso alterata, con l’introduzione di specie alloctone.
La copertura vegetazionale, pur variando da una zona all’altra, comprende le principali associazioni vegetali tipiche delle zone umide della fascia prealpina. Queste sono rappresentative della successione ecologica che si realizza nelle zone palustri con evoluzione verso formazioni boschive. Tale successione, lungi da rispettare tempi naturali, è stata completamente stravolta dall’impatto delle attività antropiche e dall’aumento di nutrienti provenienti dagli apporti provenienti dalle attività antropiche.
Le principali formazioni vegetazionali che caratterizzano le zone di nostro interesse sono le seguenti:
1) Il canneto è costituito da vaste estensioni di Cannuccia di palude (Phragmites australis) che, causa lo stato di abbandono cui versa la zona, sta progressivamente avanzando e, quindi, favorendo la colonizzazione da parte di piante pioniere.
2) Il cariceto è costituito da piante del genere Carex, che prediligono acque con ph neutro o addirittura alcalino rispetto a quelle tipiche dei laghi e rappresentano un ulteriore indicazione della progressiva evoluzione verso la costituzione boschiva.
3) La boscaglia a saliceto, formata da Salice cenerino (Salix cinerea), Tale intricatissimo ambiente, nella successione ecologica, prelude alla formazione di bosco ad Ontano nero.
4) Il bosco mesoigrofilo, formato da specie che prediligono substrati freschi, profondi e con buona disponibilità idrica, quando non addirittura allagati, con presenza arborea di Olmo (Ulmus ninor) che forma anche popolamenti monospecifici all’interno della zona, Farnia (Quercus robur), Ontano nero (Alnus glutinosa), Pioppo nero (Populus nigra), mentre gli arbusti sono rappresentati da Fusaggine (Evonymus europaeus) e Pallone di neve (Viburnum opulus).
5) Il bosco mesofilo, caratterizzato da specie che, pur essendo ancora adattate a vivere in zone umide, sopportano substrati meno ricchi d’acqua.
Oltre il bosco mesofilo, spesso è presente un’area prativa, caratterizzata dalla vasta presenza di Juncacee (Juncaceae), specie che denotano la presenza di suolo intriso d’acqua.
Introduzione di Specie alloctone.
Pur senza voler entrare nel merito della Fauna presente nelle zone umide nostrane, peraltro discussa in altri articoli di questa Rivista, E’ necessario sottolineare il problema rilevante, costituito dall’immissione di Specie alloctone nell’ambiente. Causato spesso volontariamente, con introduzione di Specie ornamentali o utilizzate per scopi ludici (come la pesca sportiva, l’allevamento domestico), ma a volte anche accidentalmente, con il trasporto “passivo” di organismi presenti nelle derrate alimentari ed in altri prodotti di importazione. Altra causa di immissione e sviluppo di specie dannose è costituita dal degrado ambientale con conseguente proliferare di specie in ambienti alterati e biologicamente impoveriti, come Ratti, Mosche, Tafani, ecc.
Le specie alloctone, oltre a competere, spesso vittoriosamente, con le specie autoctone, provocano alterazioni della catena trofica e la diffusione di agenti eziologici che risultano sovente pericolosi anche per l’Uomo. In altra parte di questa rivista abbiamo discusso quali possano essere le nefaste conseguenze della diffusione di Insetti, soprattutto Ditteri, per la diffusione da parte di questi di agenti eziologici che causano malattie invalidanti e spesso con esito fatale.
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