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Femminicidio: educare gli uomini per prevenire la violenza sulle donne

Femminicidio: educare gli uomini per prevenire la violenza sulle donne

Femminicidio.

Il termine Femminicidio è stato coniato nel 1992 dalla criminologa americana Diana Russell per indicare una particolare forma di violenza perpetrata nei confronti delle donne proprio in quanto donne, ovvero legata alla loro identità di genere. Questo termine, però, non è solo una trovata giornalistica come “bomba d’acqua” o “Grexit/Brexit” ma una triste realtà.

Anzi, un vero e proprio “genocidio nascosto”, secondo il Nobel per l’economia Amartya Sen. Alcuni dati: il 59,3% degli omicidi femminili è compiuto dal coniuge o convivente della vittima. Una volta su cinque a macchiarsi del reato è un ex (Eures, 2014). In Italia assistiamo ad un femminicidio ogni tre giorni e troppo spesso questi crimini si sarebbero potuti evitare.

La psicologa e criminologa Anna Costanza Baldry (Seconda Università degli Studi di Napoli) ha analizzato 467 omicidi di donne avvenuti tra il 2000 e il 2004 per i quali è stato individuato con certezza un colpevole. La psicologa ha scoperto che solo il 10% degli uomini che uccidono è affetto da patologie psichiatriche; mentre tutti gli altri sono perfettamente in grado di intendere e di volere.

Inoltre, nel 70% dei casi gli omicidi sono stati preceduti da violenze ripetute, maltrattamenti o stalking che si sono aggravati nel tempo. Il femminicidio, quindi, è solo la punta di un iceberg: è sui comportamenti e le dinamiche precedenti all’assassinio che bisogna concentrarsi e intervenire.

Femminicidio: il SARA

Tanto per cominciare, per le donne esiste un protocollo che identifica la probabilità di abusi domestici, il SARA. È l’acronimo di “Spousal Assault Risk Assessment”, valutazione del rischio di violenza tra coniugi. Si tratta di un elenco di fattori che aiutano a riconoscere gli uomini violenti e le donne più vulnerabili e si presenta sotto forma di questionario anonimo da compilare online.

Tra i campanelli d’allarme, ad esempio, ci sono gli atteggiamenti aggressivi del partner, la scarsa attitudine di questo a cercare o mantenere un lavoro e un eccessivo senso del possesso. Ma oltre alla necessità per una donna di imparare a riconoscere una relazione insana e un partner violento, e all’importanza della denuncia di questo, fare prevenzione, informare e formare anche gli uomini si può.

Negli ultimi anni, ad esempio, sono nati degli sportelli per l’ascolto. Rivolti proprio a loro per sensibilizzarli all’amore, alla parità, all’accettazione del rifiuto, per aiutarli a gestire la rabbia e la delusione. In Inghilterra o negli Stati Uniti, dove le strutture di ascolto per uomini maltrattanti sono attive da tempo, stanno dando risultati importanti: otto uomini su dieci smettono di avere comportamenti violenti se seguono la terapia dall’inizio alla fine.

«Il percorso dura circa un anno», racconta Mario De Maglie. De Maglie è il coordinatore del Centro di ascolto per maltrattanti di Firenze, la prima struttura di questo tipo nata in Italia anni fa. Nel 2009 al centro di Firenze si sono rivolti 22 uomini, l’anno scorso 212.

Molte strutture simili si stanno attivando in tutta Italia, anche se ancora scarseggiano tristemente al Sud

Il “problema” alla base degli istinti che questi centri provano ad insegnare a domare e dei comportamenti irrazionali che gli specialisti aiutano a controllare è l’emancipazione della donna: processo che ha messo in discussione il modello familiare e sociale maschile tradizionale in cui all’uomo tutto è dovuto, in cambio della protezione e del sostentamento della donna e della famiglia.

La vera missione è oggi proprio quella di educare gli uomini, fin da giovani, al confronto costruttivo, alla consapevolezza delle proprie e altrui forze e debolezze, all’accettazione e al rispetto dell’altrui libertà, anche sessuale. Educare alla parità di genere per eliminare pregiudizi, costumi e pratiche basati sull’idea subalterna della donna deve essere il proposito della società tutta.

Il femminicidio è un problema socio-culturale

Anche l’Onu ha recentemente raccomandato al nostro paese di «intervenire sulle cause strutturali della disuguaglianza di genere e della discriminazione». Perché nonostante “le ministre e le quasi-presidentesse”, le minigonne, le campagne anti orologio biologico perché “l’utero è mio e me lo gestisco io”, non riusciamo ancora a dimostrare che da sole ce la facciamo, che non abbiamo bisogno di essere protette o mantenute e per far ciò abbiamo bisogno di tutti, inclusi quegli stessi uomini per mano di cui ancora moriamo.

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