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Zehra Dogan: l’accusa è di Propaganda terroristica  

Zehra Dogan: giornalista e attivista curda nella Turchia di Erdoğan.

Zehra Dogan: giornalista e attivista curda nella Turchia di Erdoğan.

Nel 2017 Zehra Dogan dipinge un quadro, soprannominato la “Guernica turca”, di Nusaybin, la città curda situata lungo il confine con la Siria, dopo il bombardamento dell’esercito turco. L’ispirazione per il quadro gliela fornisce una fotografia scattata dalle forze armate turche. L’immagine ritrae sullo sfondo le macerie della città, con le bandiere turche appese fra i detriti  dei palazzi rimasti ancora in piedi e con un primo piano dei carri armati turchi.

Nel corso dello stesso attacco, nel 2016, le milizie turche bombardano trenta città e vengono deportate tra le 355.000 e le 500.000 persone. Quasi tutte sono di origine curda. L’arresto di Zahra Dogan avviene poco dopo la pubblicazione dell’opera. «Propaganda terroristica» di questo viene accusata. «Quando lavoravo sulla notizia non potevo non disegnarla. Disegnare significava esprimere parte di me, e parte di me era ed è la battaglia curda. Nei miei dipinti la luce, le figure, gli stessi colori simboleggiano quello che ha vissuto la popolazione curda».

Le vengono inflitti due anni, nove mesi e 22 giorni di carcere per aver pubblicato il disegno incriminato sui social network. Zahara Doğan ha ricevuto ricevuto numerosi premi per il suo lavoro di giornalista, fra i quali il prestigioso riconoscimento intitolato alla memoria di Metin Göktepe, un foto-giornalista turco torturato e brutalmente assassinato mentre era in custodia della polizia di Istanbul nel 1996.

Quando fallisce il  processo di pace tra governo turco e curdi del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), in Turchia ci sono stati scontri nelle città a maggioranza curda nel sudest del Paese. La Turchia non ratifica il Trattato di Roma sul Tribunale Penale Internazionale, e per questo motivo nasce a Parigi il TPP, Tribunale Permanente dei Popoli, sulla Turchia ed i Curdi. Il TPP ha lo scopo di far conoscere all’opinione pubblica internazionale una serie precisa di fatti e testimonianze di massacri e violazioni gravi dei diritti dei Curdi da parte della Turchia.

Perché non hanno diritto i curdi di parlare la loro lingua, di chiamare i figli con il loro nome perché i turchi arrivano, invadono il loro mondo e impongono le loro regole. L’8 marzo 2012 quando Zehra Dogan è poco più che ventenne fonda un’agenzia di stampa di sole donne: Jinha news, che viene chiusa dalle autorità turche nell’ottobre 2016. 384 è il numero delle prigioni che esistono tra il Kurdistan e la Turchia. Nel 2018 ce ne sono in costruzione altre 53.

Dai dati pubblicati dall’Associazione del Sistema Penale (CISST) dal 2002 al 2018 si nota un incremento del 315% del numero dei detenuti, che attualmente si stimano in 300.000. Nel World Freedom Index 2019, pubblicato ogni anno da Reporter Sans Frontier, la Turchia occupa il 157° posto su 180, detenendo il record mondiale di giornalisti in carcere. L’arresto non ferma Zehra Dogan, che continua imperterrita a scrivere e dipingere. Quando è ancora detenuta nel carcere di Mardin, le concedono di dipingere.

Ma con la condanna e il trasferimento nella prigione di Diyarbakir, non le consentono di fare arte. Le requisiscono carta, penna e matite. Ma c’è qualcosa che i turchi non possono requisire e con quel qualcosa Zehra continua  a dipingere. 

Fanno il giro del mondo le immagini delle sue opere realizzate con il sangue mestruale, suo e delle sue compagne di cella. Pennelli e colori, computer e macchina fotografica sono le “armi” con le quali da anni questa donna turca di etnia curda sta tentando, assieme ad altri intellettuali e giornalisti turchi tra i quali il compagno Onur Erdem, di contrastare la deriva autoritaria del presidente Recep Tayyip Erdoğan.

Zehra espone alla Tate Gallery di Londra diciotto oggetti rappresentativi della lotta curda. Tra questi c’è una video installazione muta, che ha al centro una tenda blu appesa tra due palazzi fatiscenti. Accanto all’istallazione ci sono delle cuffie che il visitatore può indossare guardando la tela. Si possono così ascoltare sei minuti di bombardamenti, tratti da un video di venti ore che la Dogan ha girato durante il suo soggiorno a Nusaybin. 

Il video è molto suggestivo perché al variare del vento la tenda ondeggia, assecondandolo e  lasciando intravedere quello che c’è al di là di essa. Se il vento prende a soffiare  e tu metti le cuffie, noti che oltre la tela ci sono le barricate, la violenza e le macerie. Ma se il vento si placa e la tela si abbassa, quello che ti colpisce è la serenità del blu.

E’ stata rilasciata a febbraio di quest’anno Zehra dopo aver scontato la sua pena. In carcere le hanno sequestrato 20 disegni, ma durante la sua detenzione riesce comunque a far uscire dal carcere 300 opere, oltre a due numeri di un giornale clandestino fatto all’interno della prigione.

Vi teniamo d’occhio… questo è il titolo del giornale, molto singolare dato il suo status di detenuta.

La sua arte è cambiata dopo l’esperienza vissuta in carcere.

Per un cantante iraniano realizza undici disegni usando passata di pomodoro, caffè e cenere di sigaretta e ha detto che continuerà a fare dipinti anche con il sangue mestruale. Il 16 novembre è stata inaugurata al Museo di Santa Giulia a Brescia, la prima mostra italiana dedicata a Zehra Dogan, intitolata “Avremo anche giorni migliori”, in omaggio al poeta turco Nâzım Hikmet Ran.

Sono esposte circa 60 opere inedite, tra disegni, dipinti e lavori a tecnica mista, che interessano tutto il periodo della detenzione di Zehra, cui Banksy ha dedicato il più ambito dei muri di Manhattan, il Bowery Wall, con un’opera che la raffigura dietro le sbarre, mentre impugna una matita. È stato, infatti, proprio l’artista inglese a rendere nota la sua storia all’opinione pubblica attraverso uno dei suoi provocatori murales. Fino ad allora era rimasta sconosciuta.

Secondo Zehra Dogan nessun artista può volgere le spalle alla società, ma anzi, un pittore deve usare il suo pennello come arma contro gli oppressori. “Nemmeno i nazisti perseguirono Picasso per i suoi dipinti: io invece sono a giudizio a causa delle mie opere». Questa la triste osservazione di Zehra che per un disegno ha dovuto scontare ben due anni, nove mesi e 22 giorni di carcere.

Leggi anche: Turchia: persecuzione degli avvocati, la debacle dei diritti umani

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